There are no doors, no guards, no Rembrandts in this museum
Se un “museo virtuale” è la replica digitale degli ambienti e delle collezioni del suo omonimo di cemento, da visionare online dal divano di casa, allora l’Adobe Museum of Digital Media è di sicuro qualcos’altro. Niente a che vedere con le visite interattive del Google Art Project o con la replica tridimensionale della Cappella Sistina dei Musei Vaticani(1). Piuttosto, AMDM è un ambiente simile alla palestra in cui Neo e Morpheus si allenano nel kung fu nel primo capitolo di Matrix: un luogo familiare, modellato su forme riconoscibili, ma fatto unicamente di pixel, senza un originale nel mondo fisico. Questo “piccolo” particolare non ha impedito alla Adobe Systems Inc. di reclutare un architetto in carne e ossa per regalare al suo tempio delle Muse un edificio all’altezza dei vari Guggenheim sparsi per il globo. Il risultato è un cactus artificiale bianco e lucido alto come la Tour Eiffel, con tre torri attorcigliate di cinquanta piani destinate ad accogliere l’archivio delle mostre concluse. Le locandine di quelle in corso, invece, sono sospese nell’atrio di 57 680 metri quadrati, dove si possono scorrere e aprire come gli album nella libreria di iTunes. Il tutto sotto la supervisione di meduse robotiche mono occhiute, volanti e parlanti.
Wow, direbbe Neo.
Come il palazzo che le ospita, le opere esposte in AMDM non sono riproduzioni di lavori tridimensionali, ma nascono per vivere esclusivamente nell’universo dei bit. Ad oggi, i progetti caricati sono due(2). Il primo è Valley dell’americano Tony Oursler, veterano della videoarte e instancabile sperimentatore multimediale. L’opera deve il suo titolo a un celebre studio realizzato nel 1970 dal giapponese Masahiro Mori sulle reazioni emotive dell’uomo verso le macchine antropomorfe. Nel grafico che ne descrive l’andamento, la uncanny valley (valle perturbante) è il segmento che indica il forte disagio causato dall’eccessiva somiglianza degli automi con il corpo umano. Sostituiti i robot col Web, definito dallo stesso Mori “specchio della coscienza umana”, Oursler ha creato una piattaforma interattiva che rappresenta metaforicamente Internet attraverso diciassette animazioni surreali da stuzzicare a colpi di mouse. Il secondo progetto messo on line s’intitola Atoms + Bits = the neue Craft (ABC) ed è una lezione in tre parti di John Maeda sul rapporto tra creatività manuale e digitale alle soglie del XXI secolo. Maeda, presidente della Rhode Island School of Design, è noto per il suo approccio umanizzante alla tecnologia e non perde occasione per sottolineare l’importanza di un ripensamento del suo ruolo nella società contemporanea finalizzato a una semplificazione della vita.
Se la mission di AMDM è “presentare e conservare opere innovative realizzate su media digitali e offrire un commento di specialisti del settore sulle modalità con cui le nuove tecnologie influenzano la cultura e la società”, allora i progetti di Oursler e Maeda la soddisfano appieno. Il guaio, per Adobe, è che la cosa si ritorce paradossalmente proprio contro la sua creatura, mettendone in discussione natura e finalità.
Torniamo per un momento al parallelo con Matrix. Là, le Macchine, nemiche dell’uomo, creano un programma che simula alla perfezione la realtà, per ingannare le menti degli uomini e piegarli al loro controllo. Il doppione virtuale deve essere il più fedele possibile al mondo fisico. Pena: il fallimento del dominio delle intelligenze artificiali. Contemporaneamente, gli incredibili effetti speciali del film avevano un doppio scopo, visivo e funzionale: renderlo spettacolare e dare credibilità al soggetto trattato. Adobe non ha bisogno di ingannare nessuno. La realtà simulata di AMDM si differenzia da quella della Matrice per un particolare fondamentale: è dichiarata. Nel momento in cui il fruitore accede al sito del museo, è consapevole che è un luogo finto, totalmente digitale. Perché, quindi, progettare un edificio “bello e impossibile” abitato da bizzarre guide robotiche? Keith Anderson, direttore creativo, dice: “Una delle cose che continuavamo a chiederci mentre stavamo sviluppando il museo era: come funzionerebbe nel mondo reale? Come apparirebbe se fosse fatto di mattoni e malta? Volevamo essere sicuri di poter trasferire le esperienze museali familiari alle persone nello spazio digitale”. E la copywriter Mandy Dietz aggiunge: “Desideriamo dare l’impressione di poter camminare nel museo virtuale, perché le persone non possono fisicamente farlo”. Pensieri gentili, peccato però che il sito non preveda panoramiche a 360 gradi o ambienti interattivi. Aggirarsi per AMDM non è impossibile solo fisicamente, ma anche virtualmente. Sappiamo che esiste un edificio, ma non lo vediamo mai, se non nel building tour accessibile dalla homepage, che ne illustra le fasi di sviluppo. In quest’ottica, la mission culturale di AMDM appare solo come una scusa per invitare l’archistar di turno a disegnare l’edificio museale più improbabile mai visto. Molti commenti, nel forum ufficiale e sul Web, criticano inoltre la lentezza con cui il sito si carica sui loro computer, rivelando un secondo fondamentale problema. La “pesantezza” delle applicazioni usate rende fruibile AMDM nei giusti tempi solo a chi possiede una macchina potente e una connessione veloce. Se la percentuale di coloro che si stufano di aspettare e lasciano il sito raggiungesse anche solo il venti percento, la qualifica di “museo”, per definizione pubblico e accessibile a chiunque, andrebbe sostituita con quella più ristretta di “galleria” o “vetrina”.
Nello sforzo di proporre un’alternativa alla forma tradizionale del museo virtuale, Adobe ha concepito una versione pseudo-futuristica della realtà in cui viviamo, non familiare e difficile da raggiungere. Insomma, una nuova “valle perturbante”.
www.adobemuseum.com
Stefano Ferrari
D’ARS year 51/nr 206/summer 2011
(1) http://www.vatican.va/various/cappelle/sistina_vr/index.html.
(2) Al momento della stesura dell’articolo, il progetto di Mariko Mori è stato rimandato a causa dei tragici eventi che hanno di recente colpito il Giappone, patria dell’artista.
[Stefano Ferrari si è laureato nel 2007 in Scienze dei Beni Culturali presso l’Università degli Studi di Milano e nel 2008 ha frequentato il master in Organizzazione e Comunicazione delle Arti Visive dell’Accademia di Belle Arti di Brera. È stato collaboratore del mensile Arte e attualmente collabora con il sito www.sullarte.it]