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All’ombra del sorriso folle di Yue Minjun

La Fondazione Cartier ha ospitato, dal 14 novembre 2012 al 17 marzo, una personale dell’artista cinese Yue Minjoun, prima esposizione europea completamente dedicata a questo artista, molto conosciuto e amato sia in Cina che negli Stai Uniti ma ancora poco noto nel nostro continente.

The sun, 2000 Collezione privata - © Yue Minjun
The sun, 2000
Collezione privata – © Yue Minjun

Minjoun inizia a dipingere nei primi anni ’90, dopo aver frequentato la scuola d’arte di Hebei. In un clima artistico dominato dal disincanto, egli trova nel riso il suo principale soggetto. Prima di dedicarsi esclusivamente e totalmente a questo sorriso stereotipato e impenetrabile, Minjoun ha realizzato opere fatte di gradazioni di colori e stati d’animo vari e diversificati, come testimoniano alcune delle tele in mostra, fra cui il dipinto che ritrae l’artista insieme ai suoi amici in vacanza, in una sorta di allegra e colorata foto ricordo. Poi, nel giro di pochi anni, dimentica variazioni chiaroscurali o gradazioni di sentimenti e lascia spazio solo al suo autoritratto sorridente, a tinte forti e vibranti, in cui anche i passaggi di luci e ombre sono netti e ben definiti. E questo suo viso irridente e beffardo lo ritroviamo nei posti più disparati: ripetuto, centuplicato fino al paradosso campeggia su sfondi reali o assurdi, su architetture cinesi o fra aerei di guerra, si staglia su cieli arancioni, vola su improbabili aironi o forma file simmetriche e ripetute attraverso abbracci concatenati.
C’è un’evoluzione in quest’arte? C’è un cambiamento di senso all’interno delle opere? C’è una maggiore maturità o una diversità di significato che l’artista che vuole trasmetterci? Questo è, banalmente, ciò che viene in mente visitando la mostra. Eppure non possiamo non riflettere sul fatto che Yue Minjoun sia considerato fra gli artisti più influenti della sua generazione, il principale rappresentante del “realismo cinico”, corrente ostile sia al realismo socialista che alle avanguardie. L’artista stesso dichiara che ridere è l’unica maniera che ha per nascondere l’impotenza della sua generazione, che ha assistito nel corso degli anni ’80 a cambiamenti decisivi in seguito all’apertura dell’economia cinese al mercato mondiale. Forse è dunque sbagliato pensare che quella bocca spalancata e quegli occhi sbarrati siano soltanto una maschera impenetrabile che ha poco o nulla da comunicarci, perché probabilmente Minjoun attraverso la ripetizione ossessiva del suo stesso viso vuole renderci partecipi del processo ormai irreversibile di uniformazione del popolo cinese, e vuole raccontarci di come l’assurdo sia per lui diventato ormai legge.

Mao Xinglan, 2007  Acrilico su tela - Collezione Faurschou Foundation, Copenhagen and Beijing  © Yue Minjun
Mao Xinglan, 2007
Acrilico su tela – Collezione Faurschou Foundation, Copenhagen and Beijing
© Yue Minjun

Certo, l’arte di Minjun è più complessa di quello che può apparire ad un primo sguardo. Eppure sembra di trovare il senso più profondo del suo messaggio in Mao Xinglano, del 2007, un grande labirinto rosso su fondo nero, con tanti personaggi differenti sparsi nei diversi riquadri: ragazze pensierose e uomini al lavoro, danzatori che provano ed operai ribelli, bambini rigidamente in fila e operai che discutono. E’ finalmente in questa grande tela che si coglie l’eco della Cina, un richiamo che si fa già evidente nella composizione e nei colori, ma che diventa ancora più chiaro nei mille volti che popolano l’opera. Nelle espressioni e nei gesti dei personaggi possiamo leggere tutte le contraddizioni e i disagi della Cina di oggi: ci sono spose felici e pattinatori raggianti, ma anche e soprattutto segni di disagio e desideri di rivolta, ci sono simboli antichi e gesti di devozione al regime su cui però si impongono una donna con una pistola e una ragazza con valigia e telefonino, possibile allusioni a un popolo che ha ormai in maniera salda preso in mano il suo destino. E paradossalmente, la sua vera ironia la ritroviamo proprio dove finalmente scompare quel sorriso maniacale e diabolico, in altre grandi tele in cui Minjun fa il verso a famose opere che celebrano importanti momenti storici della Cina socialista. La sua rielaborazione di “The Guitan Conference”, che originariamente rappresentava la conferenza del 1929 in cui Mao Zedong nominava i principali rappresentata dell’Armata Popolare di Liberazione, è semplicemente una sala vuota, con banchi disposti disordinatamente e cuscini abbandonati a terra. Lo stesso principio anima anche il dipinto che raffigura la cerimonia di fondazione della Repubblica Popolare Cinese, che per Minjun diventa un enorme palco deserto con un leggio solitario, di fronte al quale inspiegabilmente resta una folla immensa ed ordinata, con le sue bandiere colorate ed i suoi animi esultanti. Come quando scompaiono i potenti compare l’arte di Minjun, così quando il suo folle riso si nasconde sembra più comprensibile il suo messaggio.

Isabella Santangelo

D’ARS year 53/nr 213/spring 2013

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