Quest’anno ricorre il centenario della nascita di Alan Mathison Turing, matematico, logico, crittografo e scienziato: un autentico genio leonardesco del XX secolo. Egli, tra i primissimi teorici dell’Intelligenza Artificiale, è considerato il padre della computer science e un pioniere dell’informatica.
Alan nacque a Paddington, Londra, il 23 giugno 1912. Frequentò il liceo di Sherborne, dove non si distinse per intelligenza: secondo l’insegnante di Lettere era il peggiore della classe e aveva una grafia incomprensibile. Tuttavia, essendo molto dotato per la logica e per la matematica, in seguito riuscì a frequentare il King’s Collage a Cambridge. Era ateo, anticonformista, omosessuale e piuttosto eccentrico. Amava la corsa e i giochi, tanto che, insieme all’amico David Champernowne, inventò il primo simulatore degli scacchi, chiamato Turochamp. Era balbuziente e un po’ maldestro. A volte andava a lezione indossando la giacca del pigiama e usava la maschera antigas contro le allergie. Spesso autodidatta, gli capitava di imbattersi in argomenti e teorie ai quali poi s’appassionava, come il problema della decidibilità posto da David Hilbert. Esso chiedeva: esiste sempre una maniera assoluta per stabilire se un enunciato matematico sia verso o falso? Alan provò a rispondere alla domanda in un articolo del 1936 On computable numbers, with an application to the Entscheidungsproblem. Oltre a definire le nozioni di algoritmo e di calcolabilità, presentò la Macchina di Turing, un immaginario dispositivo meccanico in grado di eseguire analiticamente qualsiasi operazione di calcolo risolvibile anche da un essere umano in base alle istruzioni fornite. Era costituita da un nastro di lunghezza infinita suddiviso in caselle uguali, ciascuna delle quali poteva essere occupata da un simbolo (0 e 1). Un dispositivo di lettura e scrittura era in grado di leggere, scrivere e cancellare i simboli, spostandosi a destra o a sinistra di una casella alla volta. La Macchina Universale, invece, poteva assumere dentro di sé le istruzioni di qualsiasi altra macchina descritte attraverso un algoritmo. E tra questi algoritmi, Alan dimostrava che ne esisteva sempre uno per cui la macchina avrebbe continuato a calcolare all’infinito, senza arrivare mai a una soluzione. Con la sua tesi sulla computabilità diede quindi un colpo mortale al formalismo hilbertiano e al sogno di meccanizzare l’intera matematica. La Macchina di Turing Universale incorporava già i concetti essenziali di un computer: consisteva, in sostanza, in una singola macchina in grado di svolgere qualunque compito con l’apposito programma. Era stata posta la distinzione tra hardware e software, seppur non formalizzata in questi termini.
Trascorse due anni a Princeton per un dottorato e tornò in Inghilterra prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Lì aiutò i servizi segreti britannici a decodificare i messaggi criptati dalla macchina tedesca Enigma, servendosi a sua volta di altre macchine, tra cui Colossus. Il suo contributo fu fondamentale per la vittoria degli Alleati. Dopo il conflitto furono costruiti i primi calcolatori meccanici, ma Turing era più ambizioso: voleva riprodurre le facoltà di un cervello umano. Sognava una macchina che potesse pensare.
Nel 1950 pubblicò sulla rivista Mind un profetico e provocatorio articolo sull’Intelligenza Artificiale (così definita sei anni dopo da John McCarthy), intitolato Computer Machinery and Intelligence. Per stabilire quando una macchina potesse dirsi intelligente (in che modo lo sia il cervello umano è un altro discorso ancora), Turing propose il gioco dell’imitazione, che funziona così: ci sono un uomo (A), un calcolatore programmato in modo da fingersi umano (B) e un osservatore (C). Quest’ultimo, che si trova in una stanza separata rispetto ad (A) e (B), pone delle domande a entrambi cercando di capire, in base alle risposte che riceve, quale dei due sia umano. Nel caso in cui non si riesca a distinguere il calcolatore dall’interlocutore reale, allora si può dire che il calcolatore sia intelligente. Turing, spesso criticato per l’approccio comportamentista, fu forse eccessivamente ottimista nelle sue dichiarazioni; tuttavia le sue congetture sulla possibilità dell’intelligenza artificiale e sul funzionamento della mente fornirono materiale discussione per il dibattito filosofico e per le nascenti scienze cognitive.
La sua ricerca s’interuppe dopo pochi anni: nel 1952 Alan subì un processo per omosessualità e fu costretto ad abbandonare ogni incarico accademico. Per evitare il carcere si sottopose a cure ormonali obbligatorie. Morì il 7 giugno del 1954 in circostanze misteriose. Aveva solo 41 anni. Forse si tolse la vita mangiando una mela intrisa di cianuro: la mela avvelenata di Biancaneve, fiaba da lui molto amata. Un’altra leggenda vuole che il logo Apple sia un omaggio al genio di Turing, quando l’elogio pubblico era ritenuto inopportuno. A lungo, infatti, il governo inglese non ne riconobbe l’importanza, cancellandolo dalle pagine dei libri di storia. Solo negli ultimi anni il lento cammino verso la riabilitazione. Nel 1996 uscì il film Breaking the Code per la BBC, interpretato da Derek Jacobi, incentrato sull’attività di criptoanalisi e sui tentativi d’affrontare l’omosessualità. Nel 1999 il Time Magazine lo nominò come uno degli inglesi più influenti del XX secolo. Alla fine del 2009 una petizione online lanciata da John Graham Cumming costrinse il governo inglese, guidato da Gordon Brown, a porgere pubbliche scuse per la scomunica di Turing. Nel 2012, in occasione del centenario della nascita, numerose sono state le commemorazioni in tutto il mondo. Anche la città di Milano lo ha ricordato con una mostra sulla storia del calcolo automatico presso il Museo della Scienza e della Tecnica e con lo spettacolo Turing – A staged history presso il Piccolo Teatro Studio. Giusto omaggio al padre dell’era digitale.
Eleonora Roaro
D’ARS year 52/nr 212/winter 2012