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A Roma l’anteprima del MAXXI. Grandi assenti: le opere d’arte

Nel contesto unico di Roma, un nuovo museo ha visto la luce, ma solo per pochissimi giorni e senza le collezioni. Presentato in anteprima alla stampa italiana e internazionale, il MAXXI aprirà definitivamente al pubblico dalla prossima primavera, quando saranno visibili circa trecento opere di artisti, fra cui Boetti, Clemente, Kentridge, Merz, Penone, Kapoor, gli archivi di architettura con i disegni dei maestri del Novecento come Carlo Scarpa e Pierluigi Nervi e progetti e opere di architetti contemporanei, tra cui Toyo Ito, Italo Rota e Giancarlo De Carlo.

MAXXI, veduta interna (particolare) fotografia di Roland Halbe
MAXXI, veduta interna (particolare)
fotografia di Roland Halbe

Una novità che sembra finalmente sdoganare Roma da quella immagine che la immobilizza nel tempo, stigmatizzandola nel ricordo, forse troppo incombente, del classico e dell’antico. Del resto, dopo la ventata del ventennio fascista la città di Roma non sembra abituata a dialogare con l’architettura. Si contano sulle dita le poche e discusse eccezioni, tra cui l’Auditorium firmato da Renzo Piano e la teca di Richard Meier per l’Ara Pacis. Altri cantieri, come la “Nuvola” di Massimiliano Fuksas, non sono ancora ultimati.

Progettato dall’archistar irachena Zaha Hadid, a poca distanza da un altro volano dell’architettura contemporanea – l’Auditorium di Renzo Piano – il MAXXI non sembra avere fretta, e ama farsi desiderare: ci sono voluti solo dieci anni, sei governi e centocinquanta milioni di euro per realizzare i ventisettemila metri quadri distribuiti su tre livelli del primo museo del contemporaneo italiano, a dispetto dei quattordici mesi in cui è stato realizzato oltreoceano l’Empire State Building di New York negli anni Trenta del secolo scorso.

La lunga attesa e l’assenza delle collezioni non deludono: l’omaggio di questa esclusiva anteprima è al contenitore architettonico, unico, trionfante, protagonista. Il MAXXI infatti è una imponente scultura dal segno fortissimo e deciso, una sorta di avveniristica nave spaziale, che non passa inosservata nella grande piazza dove prima sorgeva una caserma militare. Il contrasto tra la teoria di linee concave e convesse del nuovo edificio generato da materiali neutri come vetro, acciaio e cemento e i vivaci intonaci dei palazzi anni Trenta che lo circondano è immediato, ma le sconfinate vetrate del museo si innestano nel tessuto urbano della città, creando un sorprendente scambio con l’ambiente circostante. L’idea di una fluidità avvolgente permea ogni angolo dell’edificio, al punto che ogni riferimento, anche scontato, viene a mancare, perché alla tradizionale separazione tra interno ed esterno si sostituisce una interazione dinamica, mai troppo invasiva. Il museo è stato pensato da Zaha Hadid per essere una galleria mobile che si snoda in tutto lo spazio disponibile senza alcuna interruzione: un concetto di flessibilità che, in occasione dell’apertura straordinaria, è stato valorizzato anche dai corpi flessuosi di trentasei danzatori, che hanno animato gli spazi espositivi con una performance itinerante ideata dalla coreografa tedesca Sasha Waltz.

Dopo aver attraversato le infinite prospettive che si schiudono mentre percorriamo scale curve, suggestivi ballatoi e passerelle in ferro che, anche quando sembrano interrompersi, si riprendono ad alta quota in un raffinato gioco di compenetrazioni spaziali, raggiungiamo i piani superiori; qui il nitore zenitale di una luce lattea, quasi accecante, amplificata dalle trasparenti lastre di cristallo della copertura, ci lascia sbalorditi.

Entriamo nella Silent Room, catapultati nella solitudine di una raggelante atmosfera metafisica, travolti da una insostenibile vertigine dei sensi. Dalle smisurate e avvolgenti vetrate che sembrano piegarsi, sinuose, come un corpo vivente oltre i confini del reale, lo sguardo si perde libero e vola sui tetti di Roma, anche se per pochi secondi. Abbiamo l’impressione, condivisa, di sentirci inadeguati, di perderci in uno spazio onirico, sconfinato e senza tempo, risucchiati e avvolti dal bagliore accecante di una luce straordinariamente bianca, che invade le dimensioni del nostro vivere.

Anche gli altri visitatori sono incantati, ipnotizzati: è un “tuffo” spettacolare sulla città di Roma, mai così vicina, anche se a distanza. Dal resto del mondo ci separa solo una parete di vetro, un simbolico, in fondo fragilissimo, permeabile confine. Come sempre gli esperti sono divisi tra elogi e polemiche. Il timore diffuso è che il contenitore prevalga sul contenuto: sul banco degli imputati c’è la tendenza dell’architettura firmata, secondo cui l’ego e l’ingegno dell’architetto si impongono attraverso un’idea ipertrofica e cinematografica di museo, a cui il presente e il futuro ci stanno abituando. Se il MAXXI è l’opera, ci sarà spazio per le opere? Gli artisti saranno liberi di esporre senza essere condizionati da un contenitore-attore così protagonista, che rischia di soffocare il suo contenuto, ovvero quell’arte contemporanea che da anni aspettava il suo museo nazionale?

MAXXI, veduta esterna Fotografia di Richard Bryant
MAXXI, veduta esterna
Fotografia di Richard Bryant

Dall’altra parte però bisogna fare i conti con il nuovo concetto di Museo Contemporaneo che, come ci insegnano già da tempo oltreoceano, tende ad andare oltre gli oggetti, inserendosi non solo nel tessuto culturale e storico, ma intervenendo anche in quello urbanistico e sociale delle città. Dobbiamo comunque attendere le cinque mostre inaugurali previste in primavera: Spazio!; Gino De Dominicis. 1947-1998; Luigi Moretti; Kutlug Ataman, Mesopotamian Dramaturgies e l’installazione multimediale Geografie italiane di Studio Azzurro, per capire se nel MAXXI la capacità attrattiva della macchina architettonica che genera stupore, riuscirà ad accogliere e a confrontarsi veramente con ogni forma di Arte.

Isabella de Stefano

D’ARS year 50/nr 201/spring 2010

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