Quella che vedete in queste foto è Gaza, quartiere Shuja’iyya. O quel che ne resta dopo i bombardamenti israeliani di luglio e agosto. Duemila morti, undicimila feriti, oltre diciassettemila case distrutte. La storia che si ripete. Iyad Sabbah (1973), artista e docente all’università al-Aqsa di Gaza, ha deciso di sistemare un nuovo gruppo di sculture proprio lì, tra le macerie.
L’installazione, intitolata Tahaluk (“esausti”), rappresenta una famiglia come tante: la giovane mamma col figlioletto per mano, il papà con l’ultimo nato in braccio, due adolescenti, le due nonne appoggiate ai loro bastoni. Il gruppo è ritratto mentre fa una cosa che tante alte famiglie laggiù sono state costrette a fare: scappa. O meglio: si trascina stancamente, per la prima o per l’ennesima volta, verso la salvezza. Le figure, polverose e crepate, malinconiche nei colori e nelle espressioni, sono fatte di vetroresina e argilla, usando come materia prima il fango e i detriti accumulatisi attorno alle rovine delle case.
Lo scorso 18 ottobre Sabbah le ha “esposte” prima sulla spiaggia, poi tra le rovine dei bombardamenti (il luogo della fuga e il luogo della casa), dove si trovano tutt’ora. Non sapeva quale sarebbe stata la reazione della gente, non abituata a iniziative di questo tipo. “A Gaza non c’è interesse verso l’arte contemporanea – ci ha detto Sabbah – ma le persone hanno capito il senso dell’iniziativa e hanno interagito con le opere, sentendole come parte del proprio vissuto”. Gli abitanti di Shuja’iyya, tra cui diversi bambini, sono scesi per strada e hanno cominciato ad aggirarsi curiosi tra le sculture, discutendo sul loro significato, studiandole, toccandole. Forse esausti nel corpo, ma certo non nella mente, ancora vogliosa di scoprire cose nuove, di sognare una vita tranquilla dove la scena mimata da quelle spettrali figure diventi solo un lontano ricordo.
Stefano Ferrari