È una mostra che sta facendo molto parlare quella di Michael E. Smith e Ian Cheng alla Triennale di Milano. E che divide, pubblico e critica. I due giovanissimi artisti americani – 37 e 30 anni – incarnano infatti due modi diametralmente opposti di fare arte (e, di conseguenza, due diversi approcci curatoriali).
Smith, che in Italia lavora con la galleria Zero di Milano, è un fanatico del readymade e del concettualismo più estremi. Come materiale per le sue opere usa oggetti d’uso comune e resti animali, che espone così come sono oppure fusi gli uni agli altri in grotteschi ibridi (un cavo con appesa una palla di pelle di pollo; una bottiglia di plastica unita a un piccione).
Cheng, alla sua prima personale in Italia, è laureato in Scienze Cognitive. Dopo il college ha lavorato per un anno alla Industrial Light & Magic, lo studio di effetti speciali digitali di George Lucas, il creatore di Star Wars. Progetta complesse simulazioni virtuali e performance in motion capture nelle quali corpi e oggetti d’ogni tipo s’azzuffano, si disintegrano e rinascono in coreografie mai uguali dalla durata infinita – a Milano ne ha portate tre: Metis Suns (creata apposta per l’occasione), Entropy Wrangler (2013) e This Papaya Tastes Perfect (2011) che però, a differenza delle altre, ha una durata fissa e si ripete sempre uguale. Smith lavora sul vuoto e sul silenzio. Da solo occupa tre quarti dello spazio espositivo, eppure quasi non ci si accorge della sua presenza. Cheng, che espone in una stanza tutta per lui, lavora sul pieno e sul suono, intasando occhi e orecchi con una cacofonia d’immagini e versi.
Edoardo Bonaspetti, neodirettore del settore “arti visive e nuovi media” della Triennale (e fondatore di Mousse), li ha voluti mettere uno accanto all’altro perché, pur così diversi, ha visto nei loro lavori una perfetta complementarietà e un tema comune. Assieme, infatti, le loro opere compongono un’inquietante e visionaria allegoria multimediale del degrado materiale e sociale che colpisce la società d’oggi.
Se molti – compreso chi scrive – hanno lodato la scelta di Bonaspetti di puntare sull’arte più giovane e sperimentale, altri – spesso gli stessi; compreso, ancora, chi scrive – hanno rilevato però un evidentissimo punto debole nella mostra: Smith. Non è cosa da poco. Se è pur vero che i suoi lavori e quelli di Cheng si incastrano bene, non ci pare si possa dire che si completino a vicenda. O meglio, lo fanno in una certa misura in questa specifica occasione e sul tema di fondo della mostra. Ma, mentre i video di Cheng hanno vita propria anche separati dalle creazioni di Smith, i “rifiuti” di Smith acquistano un significato solo grazie alla presenza delle opere di Cheng. Da soli, infatti, formerebbero l’ennesima, stanca galleria di readymade anonimi e senza titolo (e pure un po’ stomachevoli) che, senza un forte supporto critico, possono significare tutto e il contrario di tutto.
)
Ecco, come si diceva all’inizio, che a dividere ci si mettono allora pure i curatori – Simone Menegoi (con Alexis Vaillant) per Smith; Filipa Ramos per Cheng – che rappresentano a loro volta due modi differenti di fare critica: letterario e celebrativo quello di Menegoi; chiaro ed essenziale quello della Ramos. Sarà contenta ad ogni modo la galleria Zero, che in questo momento ha due artisti della sua scuderia protagonisti di grandi eventi in città (l’altra è Micol Assaël all’Hangar Bicocca).
Fino al 29 marzo, Smith è protagonista di una personale alla Power Station di Dallas. Cheng ha una sua pagina su Vimeo dove si possono vedere molti dei suoi lavori, tra cui quelli di Entropy Wrangler e This Papaya Tastes Perfect e il videoclip Brats, realizzato nel 2012 per la rock band Liars, una delle sue migliori creazioni.
Stefano Ferrari
Michael E. Smith (a cura di Simone Menegoi e Alexis Vaillant)
Ian Cheng (a cura di Filipa Ramos)
Dal 5 al 30 marzo 2014
La Triennale di Milano