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Paradigmi dell’arte biotech

La cosiddetta “arte biotech” (di cui questa rivista si è più volte occupata) non è che uno dei tanti sintomi della fase “postbiologica” e “postumana” in cui è entrata la cultura, e più in generale l’esperienza contemporanea. Capisco che i termini con prefisso post-, per il loro abuso, hanno creato in vasti strati di lettori comprensibili reazioni allergiche, sino al totale rigetto. E tuttavia non esistono termini più efficaci per indicare un trapasso di paradigma mentre il processo è ancora in corso. Basta, ovviamente, non intenderli nel senso più banale e riduttivo. “Postumano” non significa meccanicamente che si stia creando una nuova specie diversa da Homo sapiens, come “postbiologico” non significa che ci avviamo a fare a meno della biologia. Anzi. Questi termini significano solo che le tradizionali premesse antropologiche, le usuali (anche se confliggenti) definizioni dell’umano, le guide e i limiti delle scienza del vivente,  non sono più adatte alla descrizione dei processi in corso. Una teoria postumana dell’uomo deve continuare, naturalmente, a basarsi sulla biologia umana e sulla biologia in generale: solo che, nell’era della manipolazione del genoma, i processi biologici naturali hanno smesso di funzionare da limite invalicabile per la caratterizzazione del vivente (compreso l’uomo), e anche i processi biologici, uno degli ultimi baluardi della “naturalità”, entrano ormai a passo di carica nella sfera dell’artificiale.

Eduardo Kac, Genesis, arte trangenica
Eduardo Kac, Genesis, arte trangenica

Una delle conseguenze della nuova centralità delle scienze della vita nel panorama della cultura e dei media contemporanei è che si rende sempre più evidente la cancellazione di ogni confine tradizionale fra “arte” e “non arte”. Ciò deriva dal fatto che le pratiche di manipolazione del genoma dischiudono nuove prospettive nell’indistinta zona di confine fra esistenza e non esistenza della vita (basti pensare alle animate discussioni nella comunità scientifica e sui media sul tema dell’embrione), e quindi sottraggono all’arte (tanto alle arti visive quanto alla letteratura) uno dei suoi terreni privilegiati di rappresentazione e di riflessione, quello della morte. Se già la mediatizzazione dell’arte aveva contribuito, nella seconda metà del secolo XX, alla sua migrazione in ogni genere di ambito e mezzo (dalla tv alla pubblicità), e quindi alla dissoluzione di ogni tratto caratteristico che distinguesse l’arte da altre attività espressive, la biologizzazione dell’arte è in procinto di alimentare ulteriormente questo processo.

Il panorama che dobbiamo aspettarci nell’immediato e nel prossimo futuro è quindi quello già messo in luce da Roy Ascott: vedremo cioè sempre più artisti muoversi nell’ambito dei moist media –  i “media umidi” derivati dalla combinazione dei pixel e dell’organico, dell’informatica e delle biotecnologie – e sul terreno delle tre cosiddette RV: la realtà validata, basata sulla tecnologia puramente reattiva della meccanica classica, la realtà virtuale, che fa uso di una tecnologia digitale interattiva, e la realtà vegetativa, che usa una “tecnologia delle piante” psicoattiva basata sui principi dell’etnobotanica. Starà ai singoli artisti, naturalmente, scegliere se utilizzare questo insieme di nuovi strumenti per assecondare il kitsch mediatico, la banalizzazione e lo sfruttamento commerciale del discorso sociale che trionfa nel mercato dell’arte “ufficiale”, o se invece proseguire in modo nuovo una riflessione e una critica dei dispositivi linguistici che presiedono ai nuovi intrecci fra arte, scienza e tecnologie. Nella scena della nascente arte biotech questa polarizzazione è già evidente, e operatori come SymbioticA e Brandon Ballengee (per non parlare di Critical Art Ensemble) hanno scelto risolutamente la seconda via. Una delle opere più significative di questa tendenza resta Genesis (1999) di Eduardo Kac, con la sua critica all’orgoglio antropocentrico della Bibbia (conenuto nel famoso versetto “Che l’uomo domini i pesci del mare, gli uccelli del cielo e gli animali che strisciano sulla terra”), e il rapporto che istituisce fra mutazioni batteriche e mutazioni testuali.

Eduardo Kac, Genesis, arte transgenica (particolare)
Eduardo Kac, Genesis, arte transgenica (particolare)

Proprio quest’opera ci permette di impostare una riflessione sul significato dell’arte biotech e sui paradigmi che essa mette in gioco. Jens Hauser ha già sottolineato i processi di “ri-materializzazione” e di “de-figurazione” (Entbildlichung) che caratterizzano quest’arte, osservando che in queste opere “la percezione visiva non viene ridotta alla tipica relazione fra un significante e il significato spesso associato alla ‘lettura delle immagini’.” Non credo però che questo significhi che il tratto più caratteristico dell’arte biotech sia, come osserva sempre Hauser, la “produzione di presenza”. L’accostamento che egli istituisce tra il lavoro di molti artisti biotech e il rapporto tra “presenza reale e rappresentazione metaforica” come si realizza nella performance, è senz’altro pertinente. E tuttavia io esiterei a indicare in questo tratto la caratteristica più interessante dell’arte biotech. La corporeità dell’artista o delle sue creazioni sarebbero infatti poca cosa, in quest’arte, senza il lavoro di progettazione e di intervento sul DNA. Come in altre correnti di arte contestuale, quindi, è una dimensione linguistica e informazionale che sembra prevalente. In altri termini l’arte biotech, anche quando è tesa a criticare la prospettiva riduzionista che identifica la vita con la trasmissione di informazione, si muove proprio sul terreno della valorizzazione dei meccanismi informazionali e linguistici. Essa, a mio parere, si situa quindi al di fuori, e per certi versi contro, ogni tendenza irrazionalista volta a giocare la dimensione del corpo contro quella del linguaggio. E qui sta, io credo, in gran parte il suo interesse nel panorama attuale.

Antonio Caronia

D’ARS year 48/nr 193/spring 2008

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