“… la virtù consiste nel serbare in sé il male che si patisce, nel non liberarsene diffondendolo intorno a noi con gli atti o l’immaginazione…bisogna arrivare a infondere per un attimo il sentimento che proprio il bene è anormale. E in effetti è proprio così, a questo mondo. Non se ne ha coscienza: l’arte ne dia coscienza. Simone Weil
Se ci si rinchiude ai Magazzini del Sale arrestando l’ansia da padiglione, Venezia è Salva. Si salva da noi e forse dentro di noi. Quale evento collaterale della 53° edizione Biennale d’arte contemporanea, la mostra “Venezia Salva” – omaggio ai cento anni dalla nascita di Simone Weil (1909-1943), filosofa francese nonché autrice della tragedia incompiuta i cui appunti sono stati riuniti in “Poèmes suivis de Venise sauvée” (Gallimard, Paris 1968), vede la partecipazione di 27 artiste fra cui Carol Rama, Maria Lai, Carla Accardi, Lara Favaretto, impegnate nella realizzazione di un libro-cahier ispirato all’interpretazione weiliana della congiura degli spagnoli del 1618 contro la Serenissima… Ci si intrufola dunque fra le pagine d’artista e la storia comincia.
La testa corre sulle acque lagunari del XVII secolo quando, alla vigilia della Pentecoste, un gruppo di congiurati capitanato dal provenzale Jaffier, si appresta al massacro di Venezia. Dopo poche ore la città sarebbe stata saccheggiata, tolta ai veneziani e consegnata alla Spagna, proprio nel giorno di festa più atteso dell’anno. Ma qualcosa arresta i piani. Lo stesso Jaffier rivela al Consiglio dei Dieci la congiura, mosso da pietà, giustizia… forse dalla bellezza inviolabile della città. Questa la versione della Weil. Una tragedia in tre atti, sintetici, essenziali, in cui appare ad intermittenza il destino dell’uomo. Sui riflessi dell’acqua una traccia del tragico e le considerazioni Weiliane sul limite fra il bene e il male, la realtà e il sogno. Ecco cosa ci insegna: c’è un sogno che acceca; una sete di potere figlia di una frustrazione troppo grande per essere gestita; un vuoto eccessivamente divorante per essere accettato. Ci si convince che distruggendo la realtà piegandola ai propri piedi ci si sentirà pieni, appagati, padroni. E in guerra, si sa, non ci sono regole se non quella di terrorizzare talmente tanto chi si vuole denudare dei propri privilegi, da ridurlo ad uno stato di assoluta dipendenza. Intanto Jaffier mostra a tratti una dubbiosa assenza. Si distacca dal sogno, osserva Venezia dall’alto, forse riflette sul reale… La città, il suo splendore, la gioia nel cuore di Violetta che attende la festa della Pentecoste come il giorno più felice della sua vita. A lei, ignara di tutto, spetta l’ultimo monologo della tragedia incompiuta. Ma nel frattempo Jaffier è incorso in un’ulteriore sciagura: denunciando la cospirazione e impedendo il massacro, ha dato la morte ai suoi amici congiurati, seppure avesse chiesto come unico favore quello di risparmiarli. L’eroe si è affacciato sul crinale, forse quello fra bene e male, fra reale e immaginario. Ha compiuto una scelta e sacrificato potere, amicizia, fedeltà, credendo di agire nel giusto. Gli è andata peggio che a tutti gli altri: non gli è stato concesso morire. Ma ecco Violetta all’alba dei festeggiamenti: “Vieni e vedi, città, la tua gioia ti attende, sposa dei mari, vedi lontano e più vicino. Tra un attimo la festa colmerà i nostri voti. O bellezza sul mare dei raggi dell’aurora!” Venezia è salva, Violetta pure. La bellezza, la speranza, intatte. Ma sarà questa la realtà? Non è forse anche questo monologo frutto di un delirante sogno cieco? È allora Jaffier la personificazione del limite, della soglia, sofferta e mai definita, distaccata e allo stesso tempo incastrata tra due poli opposti, notte e giorno, distruzione e nuovo inizio?
Seguendo il consiglio della stessa Simone W.: l’arte ne dia coscienza, mi trovo ad imbattermi in due emblematici esempi di come quest’ultima, l’arte, a volte ci riesca. L’installazione Le Grand soir di Claude Lévêque, ospite del padiglione francese dell’ultima Biennale, dal titolo e dall’ispirazione casualmente vicini alla tematica della “Venezia Salva”, è una geniale metafora del sempiterno stato liminale dell’esistenza umana. Concetto francese rivoluzionario di rottura sociale, la Grande Sera indica l’idea di cambiamento dell’ordine costituito in vista di un giorno nuovo. Si percorre dunque un corridoio su cui aprono algide e spietate gabbie color acciaio, vuote, forse piene di noi. Prigioni asettiche, luminose, accecanti, al cui termine, sui punti cardinali del padiglione (non a caso) si intravedono dei ventosi e bui poli d’attrazione. Una misteriosa forza ci spinge verso di loro. Corsari, ci si affaccia sull’oceano. Sono finestre sul nulla o su qualcosa di ancora nascosto. Oltre le sbarre la libertà, l’ignoto, un’altissima bandiera nera mossa dal vento, avvolta da rumori di tempesta. L’orlo, il limite, il salto nel vuoto. Si convive col timore che ci ha avvicinati al dirupo e in prua alla navigazione ci si scopre minuscoli protagonisti di un avvenire ancora avvolto nella notte. Sospesi. La Grande Sera è l’istante di oscillazione. Come nella tragedia weiliana si intuisce il precipizio, ma non c’è trama. A noi la scelta; la percezione della soglia, dei due stati che la soglia separa e che trasparentemente smuove; del nostro io come soglia stessa. Eccoci al punto. In quanto corpi attraversati da moti controllati e incontrollati, non siamo certo foglie invisibili in cima ad un dirupo o in preda a correnti esterne. I cosiddetti “poli” opposti tra cui dibattersi sono ahimè generati da meccanismi che altro non vengono che dal nostro indecifrabile “interno”. Ad esempio di come l’io possa esser soglia e contenitore di spinte e sogni avversi, limite fra bene e male per citare Weil, la mostra Unconditional love – evento collaterale alla 53° Biennale organizzato dal National Centre For Contemporary Arts (NCCA) e dal Moscow Museum of Modern Art (MMoMA) per la direzione di Buro 17, sembra seguire ed interpretare alla perfezione il ritmo della “Venezia Salva”, spunto sinora di questa breve riflessione. Con artisti della portata di Marina Abramovic e del gruppo AES+F, le curatrici hanno inteso sviscerare il concetto per eccellenza più sfuggevole a qualsiasi categorizzazione, attraverso interpretazioni artistiche di autori di varia età e provenienza. L’amore incondizionato: quello privo di occhi, di testa, di ragione, che si manifesta nelle relazioni tra singoli individui così come in politica, nelle dinamiche finanziarie, e ovunque si sperimenti quella spinta incontrollata che non scende a compromessi perché certa delle proprie indiscusse motivazioni. Quello dei congiurati, di Jaffier, di Violetta… Forse una lezione ce la può dare l’opera Execution love chair di Vadim Zakharov. Ispirata ad una vecchia sedia su cui venivano fatti sedere i bambini da punire legando loro le gambe ad una sbarra, e ripensando all’orrenda tortura della Cina antica, in cui i criminali venivano fatti sedere su dei germogli di bambù, che crescendo dilaniavano il loro corpo sino alla morte, Zakharov dà vita ad una meravigliosa e toccante sedia per “l’esecuzione amorosa”. Su una scultura in legno che riproduce quella vecchia sedia punitiva, attraverso il buco posto sul sedile in cui cresceva il bambù, c’è una rosa. Una rosa rossa, autentica, muta, dolcissima. Viene allora da pensare che è vero, la certezza di una verità fra cosa sia sogno e cosa realtà non la si avrà mai. Ovunque c’è sogno e in ogni cosa una parte di realtà. A chiunque ci si rivolga si incorre nella cecità di un orrore, di uno sbaglio, o in una lucidità fittizia, che anche se volta al bene probabilmente male a qualcuno o qualcosa lo fa. Il rischio nel superare o non vedere la soglia c’è. Ma fra l’infliggere male all’altro da noi in nome di una conclamata realtà, e il morire nel sogno facendosi crescere dentro la rosa d’amore, credo non ci siano dubbi. Jaffier aveva forse tradito i suoi compagni ma ha salvato chi nel cuore credeva ciecamente, incondizionatamente, in un nuovo domani. E dato che il nostro destino pare essere quello di soglie…
Ora, immaginate due cose. Prima di tutto, che non morirete mai. Poi, che l’amore crescerà dentro di voi, sia che lo vogliate sia che non. Allo stesso tempo, immaginate di essere nati completamente idioti, come un blocco di legno senza emozioni che improvvisamente (con suo orrore!) sente che qualcosa di terribile gli sta capitando: la rosa dell’amore sta crescendo al vostro interno, andando sempre più su, fino a giungere (oh no!) al vostro cuore. Griderete: “Non lo fare! Non ho fatto nulla di male! Voglio il bambù! Preferirei morire come un blocco di legno…” ed ancora nessuno fa attenzione a voi. Il procedimento è cominciato e siete condannati all’amore. Vadim Zakharov
Viola Lilith Russi
D’ARS year 49/nr 198/summer 2009