Invictus non è un film che documenta la storia della Repubblica Sudafricana: ne è un romanzato e poco esauriente frammento. La vicenda non risulta confezionata solo se recepita in senso simbolico; lo sfondo è quello di un paese uscito dall’apartheid, sgretolato in parti che possono essere raggruppate secondo le categorie -sedimentate nel luogo- di bianchi e neri.
Dopo le prime elezioni democratiche con suffragio esteso a tutte le etnie, le sorti della Repubblica vengono deposte nelle mani di Nelson Mandela, primo presidente nero; a lui il compito di unificare un paese disgregato dalle politiche razziali. La gamma cromatica di Invictus segue il processo di formazione di una forma instabile:i colori sembrano diluiti nella sabbia, opacizzati in un’atmosfera diveniente. Sabbia di spiaggia, ghiaia, o terra d’altura. Come se non si riuscisse a mettere a fuoco il tipo di paesaggio: mare, città o montagna? Il paese è un corpo addormentato che attende di essere svegliato, ancora non si sa se avrà lo stesso vecchio volto o se sarà un fanciullo tutto da scoprire.
L’opera precedente del regista, Grand Torino, trattava le difficili relazioni tra uomini che si sentono reciprocamente estranei; qui si tenta di affrontare la questione dal punto di vista del rispetto delle diversità, aprendo una finestra sull’orizzonte della coesistenza viva. Le parti in conflitto sono sottostanti a principi in lotta ed escono da una situazione d’ordine gerarchico a favore del gruppo dominante dei bianchi afrikaner. Il passato è stato l’innalzamento di un differente come modello a sfavore degli altri. Stabilizzare il Sudafrica attraverso i principi di un altro gruppo, quello che era stato dominato, vorrebbe dire proseguire con la politica dell’intolleranza; rispettare una parte e omologare violentemente i discordanti, come era accaduto negli anni dell’apartheid. Gli svariati momenti di meditazione, che intervallano l’azione della pellicola, mi hanno subito suggerito la volontà di evitare una nuova coesistenza conflittuale, di continui ribaltamenti di potere aventi per protagonisti gli schieramenti antagonisti.
Clint Eastwood, raccontando Mandela, mette in scena la presa di coscienza di come il principio sia un sistema di valori nato sul terreno del differente dominante. I princìpi, sfere spirituali e centri di riferimento, non contengono la giustificazione della loro applicabilità, sono giustificati dalla forza con la quale vengono imposti: le espressioni dei visi hanno fatto esplodere le rigide maschere.
All’Ellis Park Stadium di Johannesburg, dove si gioca la coppa del mondo di rugby, gli occhi delle numerose guardie del corpo del Presidente, fissando costantemente la folla sugli spalti, sono attenti a prevenire eventuali attentati al loro leader; sguardi sfiniti rivolti al cielo, in attesa di un’idea accordante. Lui, un Morgan Freeman talmente nel ruolo da far quasi dimenticare il reale viso di Nelson Mandela, ha nella pelle scritta di rughe la traccia di un nuovo pensiero.
Il valore nel quale poter dare alloggio alle differenze è sempre una categoria che non può rispettarle tutte. Il caso del Sudafrica è estremo e mette in luce il problema. Dopo ventisette anni di prigione Mandela sa che innalzare un differente come casa di tutti gli altri non è un ospitare, bensì un imprigionare la vita. Allo stesso tempo è necessaria una via che eviti l’inevitabile conflitto tra parti distanti, impegnate a conservarsi ed affermarsi; una via che tuteli le vite senza limitarle.
La via del Mandela di Clint Eastwood è uno sport, il rugby: ciò mi ha fatto pensare anche ad una battaglia simulata, che non va a toccare l’esistenza delle persone. Il principio non è più radicato in un differente ma diventa qualcosa che sta in superficie. Come una mano che indossa una calza a mo’ di guanto, non consentendo all’occhio di notare gli spazi tra le dita; così le differenze etniche e culturali, senza subire violenza, vengono coperte dalla maglia della Nazionale di rugby. Questo caos eterogeneo è la vita con tutta la sua diversificazione: rimarcare le tante rappresentanze e forzare la loro accettazione porta al conflitto. La squadra degli Springboks, simbolo della politica di segregazione razziale, non viene smantellata ma diventa principio unificatore di una nazione divisa: Mandela la erge a modello nazionale levandone i contenuti storici, politici e culturali. È un modello superficiale. La squadra di rugby non è più il segno del dominio dei bianchi afrikaner; e non viene nemmeno schiacciata dal dominio delle etnie africane. Gli Springboks sono il gioco, la leggerezza che deve passare sopra alle differenze, lasciandole vivere e non evidenziandone gli attriti; sono gli atleti che vanno in mezzo alla gente, allenandosi con bambini cresciuti nella polvere. L’identità non può nascere laddove si continui a fare luce sulla separazione delle parti. I punti di contatto tra i dissimili creano le basi per una parvenza di identità, una maglietta da rugby che copre le divergenze. Il modello imposto da un differente era apparentemente universale e non rispettava le dissomiglianze; questo principio le rispetta e non pretende universalità. Il Mandela di Clint Eastwood si concentra sull’incontro di flussi pacifici, da lì nasce la coesistenza viva, non dalla dittatura del più forte. Giocando tra dissonanti si sono fatti salire i punti da unire per avere un volto giovane. Non è l’ultima meta ma deve essere sempre un calcio d’inizio; infatti la situazione del Sudafrica è ancora oggi problematica.
L’identità va continuamente modellata seguendo i movimenti delle dita che la calzano. Il verde della divisa degli Springboks è simbolo di differenti le cui taglie vanno sempre verificate. Guardare il fattuale ricordando un verso della poesia “Invictus” di William Ernest Henley: “I am the master of my fate”.
Giordano Bernacchini
D’ARS year 50/nr 202/summer 2010