Ci siamo incontrati per la prima volta in Germania la scorsa primavera durante il Festival Plateaux, un progetto internazionale per giovani artisti nel campo del teatro sperimentale, della performance e live-art che si svolge annualmente (dal 2000) alla Künstlerhaus Mousonturm di Francoforte. La tua performance Into the skirt era tra i 9 pezzi selezionati e prodotti a cura di Martin Baasch. Successivamente è stata messa in scena per il Festival Internazionale di Performance al pad di Mainz, uno spazio nuovo per il teatro contemporaneo, la danza, la performance e le arti visive, diretto con entusiasmo dagli artisti Peter Schultz e Nic Schmitt. Qui avevi già portato nel 2009 un’altra performance Pregnant?! in occasione del British Performance Festival.
Prima di specializzarti in Theatre Design in Inghilterra, hai studiato zoologia alla Kyoto University. Questa fascinazione per gli argomenti scientifici sembra costituire un punto di partenza per i tuoi pezzi, quasi un pretesto per sviluppare la tua particolare forma di story telling basata su immagini, oggetti e gesti. Penso a Pregnant?!, per esempio, che è concepita come una lezione-performance. Come lavori con i temi scientifici? Come approcci questo materiale on stage?
Ciò che gli occhi oggettivi degli scienziati scoprono dalla natura mostra spesso strane similitudini e risonanze con le relazioni umane. Forse, per questo, trovo che i temi scientifici possano entrare comodamente in una performance e comunicare bene con il pubblico. Uno dei miei interessi in ambito zoologico riguarda la simbiosi e il parassitismo. Sono affascinato dai rapporti super-stretti tra due specie totalmente estranee che spesso implicano la condivisione di parti corporee. Volevo che questa situazione avesse un ruolo importante nella mia performance. Per esempio, in Pregnant?!, ho fatto vivere dei conigli in maniera parassitaria nel mio corpo, cosa che è diventata lo spunto principale del progetto. Alcuni scienziati pensano, addirittura, che la simbiosi sia un fattore chiave per l’evoluzione in contrapposizione alla teoria darwinista basata, invece, sulla competizione.
Le tue narrazioni sono avvincenti e affascinanti, sia dal punto visivo che narrativo, e si sviluppano attraverso sorprese, colpi di scena, associazioni e trasformazioni inattese. Vorrei sapere come orchestri tutto, o meglio, come costruisci (backstage) e controlli (on stage) il ritmo della perfomance.
Da bambino avevo paura del mondo dell’arte perché molti mi dicevano che la maggior parte degli artisti muoiono poveri e pazzi. Per mantenere la mia salute finanziaria e mentale, mi sembrò cruciale fare di me stesso un essere umano ragionevole e rispettabile. Così ero diviso tra il mio amore per l’arte e la necessità di aggrapparmi a una logica. Questo ha causato un grosso conflitto attraverso il quale, però, si è creata una miniera di idee e immagini. Quando ho deciso di fare i miei progetti da solo, tutte queste idee sono straripate dalla mia mente. Ho collegato i vari pezzi tra loro come se costruissi dei modelli molecolari. On stage riproduco questi modelli ogni volta che faccio una performance, perché tutte le molecole e le appendici del corpo diventano in qualche modo autobiografiche quando vengono filtrate attraverso il mio corpo e poi passate al pubblico, nella speranza che ci sia qualcosa di credibile in una serie di mini-storie surreali.
L’anno scorso hai vinto l’Evening Standard Theatre Award come stage designer nella categoria Best Design per il pezzo teatrale Mincemeat diretto da Adrian Jackson alla Cordy House. Tu progetti e realizzi sempre tutti gli oggetti, i costumi, le immagini delle performance. Come decidi qual è il materiale migliore con cui lavorare? Into the skirt è stato definito un “multimedia one-man period-custom-drama”: in questo caso è stata la gonna (in quanto oggetto) il tuo punto di partenza?
Penso che la collaborazione tra uno stage designer e un regista si fonda sulla capacità di scoprire una serie di leggi fisiche che controllano il tempo e lo spazio per la durata live della performance. Questa scoperta conduce lo stage designer al linguaggio visuale appropriato. Per i miei progetti da solo tendo a comporre liberamente immagini dispiegando il loro potenziale narrativo. “Into the skirt” è cominciata con due immagini di un abito dell’Ottocento. Ho interpretato la crinolina come una rigida gabbia di ferro che teneva l’amante di chi la indossava in prigione. La gonna a campana sembrava, inoltre, funzionare molto bene come proscenio in cui mettere in scena il melodramma che si verifica all’interno.
Quanto sono importanti gli aspetti biografici nel tuo lavoro? Ti ricordi quando hai deciso di diventare un performer? Quanto sei influenzato dal teatro e dall’immaginario giapponese?
Non ho ancora deciso se voglio essere un performer… Mi interessa il teatro giapponese tradizionale – il Noh e il Kabuki – dove non ci sono divisioni tra recitazione, canto e danza. Sebbene non abbia intenzione e non sia in grado di riprodurre il loro stile performativo, vorrei perseguire attivamente il loro proposito di unire tutti gli elementi nella performance.
Che rapporto hai con la storia dell’arte e, soprattutto, con le pratiche performative? C’è una tradizione con la quale ti confronti in particolare?
Sono interessato alle pratiche di cut-outs on stage: la rappresentazione bidimensionale di oggetti e concetti nello spazio performativo. Axel Manthey e David Fielding (entrambi registi/designer attivi specialmente nell’opera) mi hanno dato spunti fondamentali per capire come il 2D funzioni in maniera straordinaria contrapposto ai corpi dei performer, sollevando questioni sul concetto di teatralità. Ho avuto la fortuna di lavorare come assistente per David alla messa in scena di diverse opere. Avevo lavorato con Tadashi Suzuki, che, insieme alla grande attrice Kayoko Shiraishi, è riuscito a raggiungere il realismo teatrale senza cadere nel naturalismo.
In questo momento stai lavorando a qualcosa?
Ho appena fatto “Bang Bang”, un pezzo one-on-one. Si tratta di un video shooting game. Mi vesto da donna nuda e divento il bersaglio del pubblico. Sono soddisfatto di come sono riuscito ad esplorare intimamente il sangue e il melodramma in un periodo di tempo così breve. Inoltre sto rielaborando “Into the skirt”. Il Festival Plateaux incoraggia gli artisti a sperimentare invece di continuare a presentare un pezzo finito. Questo tipo di lavoro è stato fantastico ma forse adesso è ora di concludere lo show! Ho anche alcune idee per un pezzo nuovo. Credo che sarà un pezzo di danza. Con me come protagonista, probabilmente il peggior danzatore del mondo, cosa che non aiuta ma può essere un inizio interessante.
Intervista di Clara Carpanini
D’ARS year 50/nr 203/autumn 2010