Cooptare, coinvolgere, esaltare, adattare: in questi termini si racchiude il nuovo volto della società contemporanea. L’architettura, con i suoi spazi liquidi informi e virtuali, non ne è da meno, anzi accelera il processo tendendo la mano alla realtà virtuale, pensa freddamente e agisce grazie alla domotica, respira vive e si rigenera attraverso nanotecnologie e microorganismi che trasformano la “macchina da abitare” (Le Corbusier, Verso un’architettura, 1923) nell’“essere da abitare”. Nelle pieghe del DNA di animali e vegetali si cercano codici che vengono rielaborati attraverso l’utilizzo di strumenti informatici e tecnologici per aprire nuovi varchi a strutture e modelli che vanno oltre la concezione dell’architettura come semplice composizione di travi con appoggi e tamponature. A suo modo anche l’urbanistica diventa il laboratorio per far accedere l’uomo ad una nuova visione di società totalmente diversa da quella a cui è stato abituato. I materiali si fondono con la realtà virtuale, uno spazio interagisce con l’altro attraverso filtri inesistenti o formati di sola luce. I meccanismi che tendono a far respirare il costruito e la città vivono autonomamente e scambiano energie attraverso pori, che come una pelle avvolgono edifici e città luminescenti. Il pensiero che indica questo processo viene normalizzato nella “computazione disordinata”, che nello specifico tratta la logica per la quale dei flussi di lavoro tipici del mondo biologico, generalmente percepiti dall’uomo come disordinati e anomali, vengono incanalati verso dei “criteri di rendimento”, ossia la progettazione compositiva vera e propria aiutata però da sistemi informatici e virtuali. L’uomo ne è al centro, ne trae vantaggi e allo stesso tempo la natura si riprende ciò di cui è stata depredata nella concezione antropocentrica del secolo breve: aria, acqua, suolo.
In questo contesto di transizione, dove lo spazio il tempo e l’energia si confondono attraverso le vie della rete globalizzata, si elabora una nuova rivoluzione latente che si concretizza attraverso gli “esseri” che abiteremo e vivremo. Un personaggio insolito che anticipa l’oggi e che di questa realtà ne è pioniere prende il nome di Tom Wiscombe, fondatore dello studio Emergent di Los Angeles. Lo studio, nato nel 1999, nasce come un laboratorio per la progettazione digitale dove il lavoro viene guidato attraverso modelli biologici e di calcolo di cui il design ne diventa dunque l’evoluzione.
Tom Wiscombe riesce, con software utilizzati generalmente per la progettazione aereospaziale, a creare soluzioni come la Huaxi Office Tower (2008), in un villaggio situato a nord di Zhejiang, la zona rurale più ricca della Cina. La torre per uffici in questione, aldilà della sua funzione di contenitore per il terziario, è un concentrato di tecnologia e di materiali di nuova concezione studiati partendo dagli esoscheletri di alcuni organismi monocellulari. La canalizzazione dell’area condizionata, per esempio, migra fuori dal nucleo centrale verso l’esterno in tubature organiche di vetro, creando appunto un esoscheletro dove l’aria, attraverso un comportamento condotto, crea dei rami e delle pieghe che corrono attraverso le facciate dell‘edificio, lungo tutto il perimetro. Attraverso l’effetto camino, l’aria calda sale nelle pieghe e passivamente si ha il raffreddamento. Un secondo strato di lamiera forata (lenzuolo) avvolge i condotti di vetro adattandosi alla forma delle pieghe e avvolgendo l’edificio. Questo “sudario” agisce come un filtro solare durante il giorno, senza però oscurare la vista verso l’esterno. Di notte, il bagliore del vetro dei condotti dietro il lenzuolo, crea colori eleganti e effetti di profondità, riflessioni, e silhouette che tendono al mimetizzare la costruzione con la natura lussureggiante del sito. Il Flower Street Bioreactor (2009) invece, un’installazione progettata per il dipartimento della Cultura e delle Arti dell’Università di Los Angeles, nasce come punto di partenza per ribaltare il paradigma culturale di pensare l’energia come qualcosa che proviene da sorgenti distanti. Il progetto, commissionato come un pezzo di arte pubblica a Los Angeles, è un fotobioreattore simile ad un acquario inserito nella facciata di un edificio rinnovato, al cui interno colonie di alghe verdi producono biocarburanti attraverso la fotosintesi. L’acquario è realizzato in policarbonato trasparente, stampato per creare intricati rilievi con effetti tattili per i passanti. Questi rilievi sostengono un’armatura interna di illuminazione che si basa sulla “Bio-feedback Algae Controller” inventato dalla società di biocarburanti OriginOil. Questo nuovo tipo di bioreattore usa LED sintonizzati, che variano per colore e intensità e sostengono la crescita delle alghe a diversi stadi di sviluppo, massimizzando la produzione di bioetanolo. Secondo la OriginOil, “questo è un vero sistema di bio-ritorno … le alghe consentono alla centralina LED di sapere di quali nutrienti hanno bisogno e in quale quantità, creando un sistema di crescita auto-regolata.” Questo sistema è alimentato da una matrice solare sinuosa che si snoda fino ai rami di un albero adiacente. Di notte, l’installazione genera un effetto al tempo stesso urbano e selvaggio che attraverso il lavoro del bioreattore illumina la porzione urbana e tende una mano verso la sostenibilità controllata. Sostenibilità questa che sarà per il futuro un modo nuovo di pensare il nostro approccio con l’ambiente e le nostre città. La computazione disordinata, aggettivo di matrice anarchica, non annullerà le regole, ma ne creerà di nuove e sarà la trasformazione che segnerà il confine tra lo spazio ormai secolarizzato della rivoluzione industriale, con i suoi problemi e le sue diseguaglianze, e un universo meno utopico ma sempre più bioriferito.
Matteo Scarci
D’ARS year 50/nr 203/autumn 2010