Nel numero scorso abbiamo visto alcune esperienze e pratiche “subculturali” degli anni ‘80 e dell’inizio degli anni‘90, provenienti dal post-punk e operanti nell’ambito della comunicazione mediale. La loro poetica era governata da una prospettiva fortemente critica, dal punto di vista sociale e politico, nei confronti dei media-molochs. Quelle pratiche hackeravano l’univocità e la non reciprocità dei media cercando di restituire al fruitore una centralità consapevole, la possibilità di una risposta (oggi diremmo “la possibilità di interagire”). Tuttavia gli interventi tecnici su quei sistemi e su quelle tecnologie di comunicazione potevano dare solo esiti limitati, poiché radio e televisione sono sostanzialmente media passivi, nei quali la possibilità di intervenire e modificare la comunicazione in tempo reale è tecnicamente circoscritta e difficoltosa. Si poteva dunque solo intervenire a livello di contenuti o di dinamiche operative, generando pratiche con una portata e un’influenza limitate, locali ed esclusive, fondate su tecnologie il cui accesso era costoso.
L’avvento e la diffusione del personal computer e della Rete introducono alcuni elementi fondamentali. In primo luogo vi è la dimensione globale: la possibilità di raggiungere fruitori in tutto il mondo è incomparabilmente maggiore rispetto
alle potenzialità della radio e della televisione, limitate dalla portata dei trasmettitori e dei satelliti. In secondo luogo vi è la dimensione interattiva consentita dai computer e dalla Rete, che coinvolge il fruitore in maniera biunivoca e gli concede quelle possibilità di risposta e di azione che sono molto più limitate nella radio e nella televisione. In terzo luogo vi è la dimensione economica, di gran lunga meno rilevante rispetto ai mass media tradizionali, che si colloca all’interno del grande processo di informatizzazione di massa avviatosi intorno alla metà degli anni ‘80 e proseguito nella decade successiva. Gli elementi di base di tale processo sono sostanzialmente l’aumento della capacità di calcolo dei processori e la diminuzione del costo del calcolo, che portano alla nascita e alla diffusione del “personal computer”, relativamente economico e facile da usare perché pensato per i non esperti (“the computer for the rest of us”, secondo Steve Jobs, co-fondatore di Apple). L’insieme di queste opportunità fa sì che una grande massa di persone,
prima esclusa dall’informatica, possa usare un PC e conseguentemente creare, fare anche arte. Quel che prima era appannaggio di costose e complicate macchine da calcolo che solo aziende e centri di ricerca potevano permettersi diviene alla portata di tutti: la net.art, le arti della rete e le cosiddette “arti multimediali” segnano questo passaggio nodale, come forme artistiche che usano gli strumenti di tutti.
Il personal computer è lo strumento di hacking per definizione. Non solo perché intorno ad esso si è sviluppato il fenomeno hacker, ma perché la sua logica, fondata sul digitale, è quella dell’indefinita possibilità di modifica e di ibridazione, che consente di mettere insieme sullo stesso supporto di memoria e di assemblare nello stesso documento materiali eterogenei (immagini, testi scritti, audio visivi, suoni…) che prima potevano risiedere ed essere presentati solo su supporti diversi e distinti. Il “genio” del digitale sta nell’indefinita possibilità metamorfica, nella manipolabilità dei contenuti, nell’inconsistenza e nel superamento della dicotomia tra “originale e “copia”. Mentre la logica del computer appare quella del riuso, della rifunzionalizzazione e della ricombinazione di materiali esistenti, così come teorizzato, nell’ambito del V Jing, da Paul D. Miller, noto anche come “DJ Spooky”, compositore, artista multimediale e scrittore tatunitense.
Ecco allora i pionieri dell’arte telematica. Nel 1983 Roy Ascott realizza La Plissure du Texte (ispirandosi al celebre saggio di Roland Barthes, Le Plaisir du Texte, Paris, Seuil, 1973), evento telematico nel quale in undici città tra Stati Uniti,
Canada, Europa e Australia i partecipanti rappresentano dei personaggi inviando testi e immagini ASCII contribuendo a una storia planetaria collettiva che emerge da una partecipazione interattiva, da un’autorialità collaborativa e distribuita. Nel 1986 Olivier Auber col suo Générateur Poïétique consente di partecipare a un’esperienza collettiva di creazione di immagini online, che sono quindi il risultato dell’attività di centinaia di persone. Nel 1989 ancora Ascott, con Aspects of Gaia (ispirato al libro dello scienziato James Lovelock, Gaia: A New Look at Life on Earth, Oxford, Oxford University Press, 1979, che considera la Terra come grande ecosistema vivente), crea un’installazione che consente di compiere un viaggio all’interno della dimensione simbolica, ecosistema della comunicazione umana. Nel 1990 Tommaso Tozzi realizza Hacker Art BBS, banca dati telematica e primo esempio in Italia di galleria d’arte online nonché luogo di comunicazione e informazione indipendente, esperienza che nel ‘94 diviene Virtual Town TV.
Dalla metà degli anni ‘90 la net.art si diffonde rapidamente. La Rete dà voce e forza, come mostra la celebre Toywar, in cui il gruppo di artisti etoy, con l’aiuto fondamentale di attivisti e del popolo della Rete, in una crociata di dimensione mondiale vince la battaglia legale e mediatica con la società di e-commerce E-Toys, che nel 1999 aveva cercato di sottrarre loro il dominio Web per ragioni commerciali. In questa veloce carrellata ricordiamo il duo 01.org, il cui operare va dal plagiarismo e dai fake dei lavori della fine degli anni ‘90 alle più recenti performance mediali e ai reenactments in Second Life; Alessandro Ludovico e Paolo Cirio, con i lavori GWEI, Google Will Eat Itself e Amazon Noir (2005 e 2006, insieme a Ubermorgen.com), e Face to Facebook (2010); Les Liens Invisibles, con Seppukoo.com (2010), del quale si è parlato nel numero scorso.
Personal computer e reti telematiche consentono agli artisti di agire a livello globale e ai fruitori di partecipare attivamente a opere e azioni di vasta portata. L’arte entra nel dominio delle comunicazioni di massa e la pratica dell’hacking diviene comune anche al di fuori dell’arte cosiddetta tecnologica. Mostrando, in un evidente rovesciamento, come la centralità e l’autoreferenzialità delle forme artistiche della tradizione abbia ormai lasciato il campo a una dimensione complessa e variegata di segno contrario, nella quale le forme artistiche tradizionali inseguono gli stilemi e le ideologie delle forme mediali e tecnologiche. Nel suo intervento Vito Campanelli mostra quanto “le modalità caratterizzanti l’agire hacker” si siano diffuse, sia per una “generale fascinazione per l’universo hacker” sia perché viviamo in una cultura in cui “il software è alla base delle fasi di creazione, distribuzione e fruizione di un numero sempre maggiore di oggetti culturali”, e si spinge ad affermare che “oggi tutti gli artisti tendono ad operare come hacker”. Loretta Borrelli insiste invece sui fenomeni di sfruttamento economico delle relazioni sociali, tipico dei social network, e sulla semplificazione che una biopolitica così orientata può produrre sul concetto, primario e delicato, di “amicizia”. “La sensazione è che spesso non si riesca ad esprimere appieno la variabilità della condizione umana, che rimanga inespresso qualcosa che resiste alla semplificazione di questi sistemi.”
Pier Luigi Capucci
D’ARS year 51/nr 206/summer 2011