Un’ampia retrospettiva è quella che il museo parigino Beaubourg dedica, fino al 4 luglio, a François Morellet, padre fondatore del Groupe de recherche d’art visuel (GRAV) che oscillò tra il rigore geometrico e l’aspetto dadaista in cui la componente di caso e precarietà giocava un ruolo fondante. Morellet, riprendendo le intuizioni di Fontana innestate sulla scia dell’opera di Pesanek, giunge ad un personale linguaggio visivo basato sul rigore geometrico delle forme e lo shock elettrico cadenzato dei neon che spiazza e assuefà il fruitore d’arte.
L’esposizione, intitolata Réinstallations, pone l’accento sull’aleatorio e il fallace che fondano le installazioni che “devono morire per eventualmente rinascere[1]“. Queste opere, contaminate e ri-vitalizzate dallo spazio circostante, anche se limitate dallo stesso, tentano di imprigionarlo per poi rimodellarlo. I lavori di Morellet cedono al contesto, vero soggetto d’esposizione, la propria finitezza e incapacità comprensiva, come in L’avalanche o in Structure infinie de tétraeèdres limitée par les murs, sol, plafond d’une pièce dove lo spazio è catturato, ma il cui nulla spaziale sfugge. Le re-installazioni vivono in un colpo d’occhio, per poi andarsi a ricostituirsialtrove, perchè sono composte “di elementi leggeri disposti in maniera diversa a seconda dell’architettura di ciascun luogo espositivo”.
Di assoluto valore sono le opere presentate alla Biennale parigina del ’63, qui riproposte, tra cui spicca la celeberrima Neon 0°-45°-90°-135° avec 4 rhytmes interférents, il cui scopo era, ed è, quello di far interagire psichicamente lo spettatore fino a fargli perdere l’equilibrio, eliminando le vie di fuga che creano e ordinano il contesto visivo. La prima stanza nera, in cui si è inghiottiti, è illuminata da una serie intermittente di scariche elettriche che attirano ed impegnano l’occhio. Lo spegnersi e l’accendersi seriale dei neon imprigiona lo sguardo in un circolo vizioso visivo dal sapore, per chi scrive, biancoacidonero che crea una giustapposizione di tracce luminose aggressive e disarmanti. L’occhio, stimolato in maniera inconscia dall’isterico balletto, viene addormentato e indotto al girarsi e rigirarsi come assuefatto alla visione elettrica su sfondo nero. Velocità intermittente e luce/acida provocano la perdita del perno, le vie di fuga di cui si parlava un momento fa, sul quale innestare l’intero sistema di riferimento percettivo ovvero il punto “0”, fisso geometricamente e atemporale, da cui far partire il ragionamento visivo.
Morellet canta il corpo elettrico tramite la simpatia di percezioni che stimolano il soggetto senziente rendendolo assolutamente conscio della propria natura elettrica e del proprio linguaggio nervoso fatto di impulsi. I tubi al neon colpiscono e attirano, ma anche turbano come nell’opera Rouge,del 1964, incastrata nel fondo di una cabina nera e costituita da un pannello bianco con la scritta omonima. Azionata dallo spettatore, tramite una leva, l’opera subisce lampi di luce verdastra che contrastano semanticamente con l’illuminare la parola Rouge/Rosso. Forma di sublime repulsione/avvicinamento è quest’opera, essendo lo stesso spettatore ad azionare coscientemente la leva che propone il cortocircuito nervoso/emotivo.
L’opera estetica di Morellet è parsa un richiamo al corpo elettrico con cui il nostro organismo s’intende per affinità: l’elettricità è svelata essere il nostro linguaggio fatto d’impulsi che ci rendono assimilabili ad altri sistemi viventi, come quello d’ordine vegetale.
Se l’occhio umano risponde meccanicamente agli on/off – acceso/spento dei neon e si lascia guidare dagli stessi, potremmo abbandonarci al circolo vizioso stimolo-reazione prevedibile del comportamentismo di skinneriana memoria. Lo stesso psicologo, nel suo romanzo Walden Due[2], suggerisce altresì che la libertà umana non esiste, anche se ciò risulta di difficile dimostrazione[3].
L’impressione che l’opera di Morellet ha suscitato è esattamente il porre in dubbio la propria libertà di andare oltre lo stimolo appagato che imprigiona la visione. Tuttavia una riflessione si impone, ovvero quella riguardo il perchè lo spettatore dell’opera di Morellet ora sia qui, a scrivere e ragionare di un circolo e, quindi, fuori dallo stesso. Si potrebbe postulare un moto d’orgoglio superomistico che, pur nella piacevole assuefazione allo stimolo, ci spinge ad uscir-fuori-di-noi tralasciando il corpo all’impulso, offrendo così la coscienza al ragionamento. Un motivo in più per credere, sposando le tesi della Gestalt, che il tutto è più della somma delle parti e l’uomo pensante sia un più, un inafferrabile e divino più, della semplice somma algebrica di stimolazioni esterne impresse in una tabula rasa senziente.
D’ARS year 51/nr 206/summer 2011
[1] François Morellet, conversazione con Alfred Pacquement, estratto da CODE COULEUR 9 – gennaio/marzo 2011
[2] B. F. Skinner, Walden Due. Utopia per una nuova società, La Nuova Italia, Firenze, 1975 (ed. or. 1948),
[3] “La mia risposta è abbastanza semplice», disse Frazier. «Nego completamente che esista la libertà. Devo negarla… altrimenti il mio programma sarebbe assurdo. Non ci può essere una scienza riguardante un settore che salta capricciosamente qua e là. Forse non potremo mai dimostrare che l’uomo non è libero; è una supposizione. Ma il sempre maggior successo di una scienza del comportamento rende tale supposizione via via più plausibile”. Ibid. p. 284