“Dans mon art, je suis l’assassin […] Dans la vie je suis comme une souris derrière un radiateur.>[…] Je casse tout ce que je touche […]. Je casse les choses parce que j’ai peur et je passe mon temps à réparer”.
Louise Bourgeois[1]
Il prossimo Natale Louise Bourgeois avrebbe compiuto cent’anni. Per festeggiarla, la Fondazione Beyeler di Basilea ha raccolto una selezione di opere, che ha poi messo a confronto con i capolavori della propria collezione, in particolare con le opere degli artisti con cui la Bourgeois ebbe un rapporto privilegiato: Paul Cézanne, Francis Bacon e Alberto Giacometti. La mostra, che ha il limite consapevole di non poter ricostruire in toto le possibili parentele formali e tematiche della sua ricerca, offre però lo spunto per una più ampia riflessione sul lavoro di una delle voci più significative e più autorevoli del mondo contemporaneo. E pure tra le più longeve, anche creativamente parlando. Infatti, la Bourgeois è uno dei rarissimi casi (in questo ultimo secolo forse solo Picasso le tiene testa) in cui il sacro fuoco della passione non è mai venuta meno, anzi, negli ultimi quindici anni è addirittura aumentato e in ben settant’anni di carriera è sempre riuscita ad essere contemporanea, attraversando tutte le correnti e utilizzando con disinvoltura qualsiasi tipo di materia.
Tuttavia, come lei stessa più volte ribadisce, “l’impulso creativo di tutti i miei lavori degli ultimi cinquant’anni, di tutti i miei soggetti, va cercato nella mia infanzia”. È da lì, dunque, che bisogna partire, ma senza dimenticare di intrecciare gli aneddoti biografici con le grandi tematiche del dolore, della morte e della sessualità.
“Il mio tema principale è il dolore. Dare alla frustrazione e alla sofferenza una forma e un significato. Ciò che accade al mio corpo deve ottenere lineamenti astratti, almeno da un punto di vista formale. Per questo potremmo dire che il dolore è il prezzo pagato per riscattare il formalismo”. Se il dolore è il prezzo del riscatto, i ricordi sono la moneta di scambio.
La prima materia dell’opera è dunque quest’infanzia vissuta angosciosamente, consumata nel tradimento, nella menzogna, nel perbenismo ostentato ma non praticato, nella paura, nella continua minaccia dello sfacelo, nell’idea perversa di una sessualità malata e distruttiva, nell’impressione di stare non in una casa ma in una gabbia piena d’insidie (rievocata più tardi nelle famose Celle: stanze dai muri di rete e ingombre degli oggetti del disagio). La seconda è quella di riuscire a dare un corpo a questa paura per riviverla, per farla a pezzi (emotivamente e fisicamente), per poi prendersene cura. È un gioco pericoloso, ossessivo, ma necessario: “Bisogna abbandonare il passato tutti i giorni, oppure accettarlo, e se non ci si riesce, si diventa scultori”[2]. C’è qualcosa di vagamente surrealista (e lei i surrealisti li aveva frequentati) ma anche di primitivo in questa catarsi propiziatoria, in quest’esorcismo che si rinnova ogni qualvolta affronta la materia, in questa sua chirurgia distruttiva, ma anche magica e terapeutica. Si prenda, ad esempio, la serie dei totem (in mostra ce n’è uno di un bel rosso di acceso, del 1953 e intitolato Figura rossa frammentata), che la Bourgeois comincia a realizzare a New York intorno al 1941 e che poi espone alla Peridot Gallery nel 1949. In un gioco di equilibri e di forme dalla geometria approssimativa, i pezzi di legno si incastellano in architetture verticali a formare feticci dall’aria tribale: prodigiosi numi tutelari eretti a protezione di un mondo minacciato da insidie e malefici. La loro presenza incute rispetto, ma paiono colti dalla sindrome di Osiride: costruiti come sono con brandelli raccolti qua e là.
Custodiscono e proteggono, vegliano e incoraggiano un’umanità tormentata e disperata. Un compito che, a ben vedere, si assumono anche i grandi ragni che, re incontrastati del bestiario uscito dalle mani dalla Bourgeois, nascono ancora una volta da un ricordo: “Venivo da una famiglia di restauratori. Il ragno è un restauratore. Se uno fa un buco nella ragnatela, il ragno non si mette in agitazione. Semplicemente tesse e ripara la tela”. E il ragno è il simbolo della figura materna (Maman) intesa come ricordo della propria madre, ma anche come ruolo che la Bourgeois stessa ha avuto per i propri figli: “La mia migliore amica è stata mia madre – ricorda -. Era intelligente, saggia, paziente, rassicurante, selettiva, raffinata, indispensabile, ordinata e utile – proprio come un ragno”. Ma con dei distinguo: “Mia madre era una restauratrice. Aggiustava le cose rotte. Io non lo faccio. Io le cose le distruggo. Non so andare in linea retta. Io devo distruggere, ricostruire, distruggere ancora. Il mio ritmo non è lo stesso. Mia madre seguiva una linea dritta; io vado da un estremo all’altro”[3].
I ragni sono creature preistoriche e dall’aria poco piacevole: o si aggirano con fare misterioso e affaccendato oppure vegliano immobili il ricamo che hanno mirabilmente tessuto. Ma sempre restano vigili, pronti a divorare la preda e a ricominciare all’infinito il lavoro per cui sono nati. Nell’immaginario della Bourgeois, essi sono capaci di assumere dimensioni titaniche, di vestirsi di stoffe da tappezziere o di accollarsi sacche ricolme di bianche uova di marmo. Che siano giganteschi come una casa o minuscoli come una mano, essi rimangono sempre gli impenetrabili guardiani della paura.
“Ogni cellula ha a che fare con la paura. La paura è dolore. […] Spesso non viene percepita come dolore perché si presenta sempre travestita. Ogni cellula ha a che fare col piacere del voyeur, il brivido di vedere di essere visti”.
Lorella Giudici
D’ARS year 51/nr 208/winter 2011
[1] Loiuse Bourgeois, in Loiuse Bourgeois, “Connaissance des arts”, Centre Pompidou, Parigi 2008, p. 20. Tutte le altre citazioni nel testo, che non saranno accompagnate da una nota indicante una fonte, sono state prese dal materiale stampa fornito dalla Fondazione Beyeler.
[2] Ivi, p. 24.
[3] J. Gorovoy, P. Tabatabai Asbaghi, Louise Bourgeois Blue days pink days, Fondazione Prada, Milano, 1997, p. 21.