“Hegel definisce il concetto come il tempo della cosa: ciò significa che la conoscenza e il divenire, come fondamenti dell’essere umano, dipendono e si inscrivono in una temporalità, in una durata; (…). L’essere umano esiste unicamente in un universo di parole, di concetti e di cultura, che non lascia alcuna via d’accesso a una eventuale realtà diretta.”
Miguel Benasayag, Gérard Smith, “L’epoca delle passioni tristi”
Nella Francia di fine Ottocento, con la cinepresa sul treppiede Auguste e Louis Lumière hanno immortalato scene di vita quotidiana in contesti come stazioni e fabbriche: morceaux di realtà che dimostravano le potenzialità dell’invenzione tecnico-scientifica e documentavano la registrazione di un’immagine presente nella sua dimensione temporale oltre che spaziale; documenti sì, come le carte di identità o i brevetti, ma La sortie des usines Lumières o L’arrivée d’un train à la gare non erano ancora “documentari” in senso stretto. Solo dopo il 1915 si inizia a parlare di generi e a fare una distinzione tra le produzioni fiction e non fiction: i cortometraggi dei fratelli Lumière contenevano in potenza tanto gli elementi delle prime quanto quelle delle seconde, che sono state poi normate dal famoso Nanuk, l’esquimese (1922) di Robert Flaerthy, riportato dai manuali di cinema come capostipite del film documentaristico.
Nell’evoluzione del linguaggio cinematografico, il genere documentario è territorio di esplorazione per coloro che credono alla realtà più che all’immagine, preferendo strappare scene dal quotidiano non per stupire gli spettatori con virtuosismi o strabilianti scoperte come facevano i Lumière, quanto per rispondere a domande e quesiti sentiti come urgenti e vicini al presente. La necessità di argomentare una tesi diventa elemento costitutivo del genere che, forte dell’intenzione di restituire il reale per ciò che è, accetta le sue imperfezioni senza rimuoverle e agisce sui dati raccolti con la fedeltà e il rigore di un analista. Iscritta nel suo nome (la radice di documentario è “docere” ossia insegnare), la vocazione del documentario è la trasmissione di informazioni veritiere ed argomentate, la possibilità di veicolare per immagini fatti di attualità o di storia, di scienza o di arte, senza alterazioni o artefatti: i morceaux di vita sottratti al di fuori delle fabbriche o delle stazioni raddoppiano la loro durata non per inventare un mondo altro, ma per dilatare quello esistente e restituirgli il tempo che oggi non gli è dedicato o, comunque, non lo è in misura appropriata. I mezzi di informazione sono talmente voraci che i dati accumulati fanno dimenticare ciò che sembrava essere l’evento dell’anno respingendolo nel dimenticatoio nel giro di pochi minuti, giorni, settimane. L’accelerazione del tempo, di cui a sua volta il cinema è stato strumento coadiuvante, è parimenti un’evoluzione e un limite della nostra epoca che non riesce a valorizzare la concentrazione e nega all’uomo il tempo delle cose, ciò che Hegel riteneva necessario a formulare dei concetti.
Se quest’ultima constatazione fosse una verità generalizzata, il documentario non avrebbe ragione di esistere e nessuno avrebbe motivo di produrlo o di vederlo; sebbene negli anni Settanta ci sia stato un netto ripiegamento del genere verso la formula e i formati televisivi, laddove la TV ne finanziava la produzione, oggi il cinema sta ritornando al genere ed autori di fama mondiale lo hanno affrontato, come Werner Herzog con Cave of Forgotten Dreams sui dipinti conservati all’interno della grotta francese di Chauvet. Per ragioni di entertainment e di mercato, a parer mio non giustificabili, il documentario fatica a trovare una circuitazione nelle sale cinematografiche, dove la sua presentazione è confezionata nella logica dell’”evento”; così è stato per Marina Abramovich – the artisti is present proiettato al cinema contestualmente alla mostra milanese ospitata dal PAC nella primavera 2012. Ma a ben guardare, il documentario è più vivo e vitale di prima: i mezzi e la tecnologia concessi ai Lumière del XX secolo sono tali da permettere di entrare in qualsiasi antro di vita, sociale o privata che sia, e di giocare con gli istanti di vita: il linguaggio è naturalmente evoluto ed apre nuovi scenari alla registrazione e visione del dato reale fornendo un nuovo modo di pensare la cultura, la conoscenza e il divenire.
I luoghi ricettacolo per i film documentari rimangono i festival ed è al Milano Film Festival 2011 che ho avuto modo di vedere Life in a day, un progetto nato in rete, prodotto da Ridley Scott e presentato per la prima volta al Sundance 2011. Il film è il risultato di una chiamata collettiva, fatta tramite il web, in cui videomakers da tutto il mondo erano invitati a riprendere alcuni momenti della loro giornata, come il risveglio, il pranzo, piccoli gesti come lavarsi i denti o cucinare, e a rispondere ad alcune domande; gli ideatori hanno ricevuto 4500 ore di riprese da cui sono stati prelevati 94 minuti che, montati assieme, hanno formato la giornata del 24 Luglio 2010, il D-Day della creazione. Nel rispetto del canone, non ci sono attori che recitano una parte, non c’è una sceneggiatura narrativa e non ci sono contesti diversi dalla realtà vissuta: si assiste ad eventi ordinari che valorizzano i medesimi e molteplici istanti della vita di tutti. Il montaggio accelerato condensa una giornata vissuta da centinaia di persone in luoghi e ad orari diversi, componendo il quadro di più quotidianità in una sola, senza escludere i tempi morti che, sappiamo bene, fanno parte della nostra vita: è così che l’opera mi ricorda come anche questi piccoli momenti “vuoti” siano indispensabile per rendere unica la vita. Life in a day mi ha emozionata più di molti altri film, drammatici o comici che siano, forse stupendomi come L’arrivée d’un train à la gare aveva fatto nel lontano 1895.
I festival sono momenti per visionare materiale unico e raro e, come il nostrano MIFF, le ultime edizioni di Berlino e Cannes sono state l’occasione di vedere lavori molti dei quali ho scoperto essere sotto l’ala protettrice di Doc&Film, una società francese che promuove la distribuzione di documentari in Francia e nel mondo[1]. Ha come tematica la fede e il fanatismo religioso The virgin, the copts and me… di Namir Abdel Messeh, che monta un percorso nei differenti approcci alla vita, in questo caso, spirituale: il regista lascia la sua città e ritorna in Egitto per capire le ragioni della fede incondizionata che, come tutti i cristiani copti, la madre nutre nei confronti delle misteriose apparizioni della Vergine Maria. La tecnica adottata è quella del documentario in presa diretta dove Messeh accompagna lo spettatore nel farsi delle ricerche, senza fornire giudizi assolutori ma ponendo interrogativi attraverso una scrittura ironica capace di uno sguardo fanciullesco. Life in a day e The virgin, the copts and me… sono solo due esempi che confermano l’esistenza di una necessità di guardare la realtà e cercare risposte attraverso discorsi cinematografici che forniscono una chiave per penetrarla in quanto fatti culturali, perché “L’essere umano esiste unicamente in un universo di parole, di concetti e di cultura, che non lascia alcuna via d’accesso a una eventuale realtà diretta”.
Elena Cappelletti
D’ARS year 52/nr 211/autumn 2012
[1]http://www.docandfilm.com