L’apertura della boutique di Dapper Dan in partnership con Gucci riaccende il dibattito sull’appropriazione culturale. In bilico fra ispirazione e rapina, fra ibridazioni e cinismo, la moda, come altri settori dell’industria creativa, si trova sempre più spesso ad affrontare fattori che incrinano l’originalità e la serietà delle proposte stilistiche: una sfida e un’occasione per ridefinire i processi creativi alla base delle collezioni
La discussione sull’appropriazione culturale si è ormai diffusa ben oltre l’ambiente accademico nel quale è nata; una spinta importante si è avuta con la chiamata in causa di pop music e moda.
Alla base di tutto c’è il concetto, sviluppatosi nei primi anni 2000 nelle Università del Nord America, secondo il quale l’uso di elementi di una cultura (a maggior ragione se vittima di abusi e discriminazioni) da parte dei membri di un’altra cultura che detenga una posizione dominante, è irrispettoso e costituisce una forma di oppressione e spoliazione di identità.
Susan Scafidi – docente e fondatrice della Fashion Law School alla Fordham di New York – è spesso citata dai media come un punto di riferimento in questo dibattito, e nel saggio Who Owns Culture? Appropriation And Authenticity In American Law definisce l’appropriazione a partire dalla provenienza dell’elemento usato, se appartenga cioè alla cultura di una comunità storicamente oppressa. Poi ne analizza il valore, quanto sia importante a livello simbolico per quella comunità o se faccia parte di un’iconografia relativamente comune; inoltre è determinante quanto la copia – il risultato dell’appropriazione – ricalchi l’originale e diventi strumento di profitto.
Gli elementi controversi ci sono tutti, tanto più in un settore che da secoli ha nelle ispirazioni eteregenee ed esotiche una fonte pressoché inesauribile di input.
Gli scialli a motivi cashmere, amati dalle nobildonne europee già dalla fine del ‘700, erano effettivamente frutto dei viaggi della Compagnia delle Indie e della politica coloniale che l’Europa mise in atto. Il filo che però ha portato fino alla riprovazione generale per il boomerang commercializzato da Chanel si è parecchio aggrovigliato, con motivazioni contraddittorie e rischi di censure preventive altrettanto contradittorie quando non semplicemente conservatrici.
I casi che negli ultimi anni hanno generato polemiche sono molti. Nel 2015 la collezione di Givenchy dedicata allo stile delle Cola sudamericane, nelle intenzioni del d.a. Riccardo Tisci, era un omaggio alle ragazze che usano il look delle donne delle bande di latinos anni ‘70 come strumento di rivendicazione e di simbolica presa di potere, ma fu abbondantemente criticata da chi vi vedeva un tentativo di rendere inoffensiva e “bianca” una cultura appartenente agli immigrati sudamericani.
Il look peraltro è identico a quello già esibito da Madonna circa 30 anni fa nel video La isla bonita, e quindi quello che marca la differenza fa queste due issue è soltanto una maggiore, giusta, consapevolezza delle inevitabili implicazioni ideologiche dietro ogni scelta creativa? O c’è anche un avvitamento che si oppone a ogni forma di interazione, di scambio e di condivisione culturali? L’intento di preservare la cultura in questione non la limita anche, impedendone la circolazione?
C’è una linea sottile fra apprezzamento e appropriazione e culturale. La moda è da sempre influenzata dalle culture diverse e dalle sottoculture, spesso le reinterpreta per creare qualcosa di innovativo: come Vivienne Westwood nell’Inghilterra di fine anni ’70 portò il punk sulla passerella, allo stesso tempo Siouxsie Sioux (che nel punk si era formata) cantava Honk Kong Garden e usava abbondantemente un’iconografia sino-giapponese, senza vantare alcuna origine orientale o intento antropologico, soltanto estetico.
Difficile stabilire con un confine netto se Marc Jacobs abbia “sottratto i dreadlock al mondo rastafari” o se non si tratti di un semplice omaggio/revival della cultura rave dei primi anni ’90. Per contro, significa allora che le popolazioni del sud del mondo dovrebbero vestire solo abiti tradizionali?
Il caso più eclatante degli ultimi mesi – anche per le implicazioni religiose – è stato quello della copertina del primo numero di Vogue Arabia.
La foto di copertina ritraeva la celeberrima modella americana (di origine palestino-olandese) Gigi Hadid con un velo ricamato posto parzialmente sul viso. Accuse di tentativo di piegare un oggetto dal valore altamente simbolico ai gusti occidentali e a un glamour superficiale, e di non aver scelto una modella mediorientale, sono piovute sulla direttrice Deena Aljuhani Abdulaziz che Condé Nast ha sollevato dall’incarico dopo appena pochi mesi.
Un accessorio come lo hijab può essere modificato in base ai gusti e alle evoluzioni della moda? È più rispettosa dei diritti delle donne arabe una visione di pura preservazione o offrire un’alternativa (ovviamente rivolta a chi è già maggiormente incline a una visione più laica)?
Condé Nast ha preferito risolvere senza irritare un grande mercato e quindi senza entrare nel merito della visione sul multiculturalismo e sull’ibridazione che solo fino a pochi anni fa sembravano un esito scontato della cultura contemporanea. Ma la questione è seria, tanto che anche le Nazioni Unite sono state chiamate a esprimersi in merito dai delegati di 189 paesi.
Designer e team sempre più multiculturali potrebbero definire la questione a monte, ma rimane comunque irrisolto il tema dei plagi e dei furti di idee fra i vari marchi o creatori, e cioè il secondo motivo per il quale è nata la Fashion Law School di Susan Scafidi. Il tema della proprietà intellettuale e della tutela del lavoro creativo è un terreno scomodo, i casi di ispirazioni dubbie sono molti e mentre una situazione imbarazzante come quella fra Gucci e Dapper Dan è sfociata in un relativo lieto fine, si moltiplicano le segnalazioni e le bacchettate più o meno ironiche sui social network, come nel caso dei novelli, e non sempre pertinenti, censori di Diet Prada.
A giugno scorso, durante la presentazione della collezione Cruise 2018 di Gucci, in passerella c’era un capo che moltissimi hanno subito identificato come il derivato di una giacca creata negli anni ’80 da Dapper Dan, stilista di base ad Harlem e riferimento dell’allora nascente iconografia rap. Da parte di Alessandro Michele, d.a. di Gucci, sono seguite dichiarazioni di omaggio alla creatività di Dapper Dan, di nuovo così contemporanea nel mischiare elementi eterogenei, e messa in atto anche attraverso un uso spregiudicato dei simboli delle griffe del lusso.
Già, perché Dapper Dan ha sempre creato capi personalizzati – per atleti, stelle del basket e gangsta rapper –rielaborando e mescolando tessuti e accessori logati Vuitton, Fendi e appunto, Gucci… naturalmente senza autorizzazioni, cosa che ha in parte motivato la chiusura del negozio nel 1992. Negozio che ora, gennaio 2018, riapre con il sostegno economico e la collaborazione di Gucci, chiudendo un cerchio di implicazioni a ripetizione. In questo, come in altri casi, lo smascheramento e la conseguente critica per l’appropriazione sono arrivati dai social network, ma il più delle volte questo avviene con l’attivazione di un meccanismo di indignazione/ironia che si esaurisce però nei tempi brevissimi del post successivo.
La tentazione di bacchettare e cogliere in fallo il nome famoso è allettante, e come per il profilo Instagram Diet Prada – gestito da Tony Liu e Lindsey Schuyler – è una buona base per un’immediata reputazione fra gli addetti ai lavori: sempre più presenti a sfilate ed eventi, i due sorveglianti sono stati ormai metabolizzati, per quanto i post “di denuncia” siano sempre più numerosi. La materia è complessa e difficile da affrontare superficialmente, e – a parte i casi eclatanti – per capire se un capo è un plagio non basta identificare una fascia in vita come elemento in comune se non si considerano il volume, la linea e il taglio, il tessuto o la stampa, le rifiniture e l’occasione d’uso. Tutti quei fattori cioè che nell’insieme costituiscono l’identità originale di un prodotto creativo. Altrimenti è troppo facile, e sostanzialmente inutile, al di là del brivido estemporaneo per i follower: copia, proprietà intellettuale, appropriazione culturale, citazioni e tutela del lavoro creativo sono argomenti che richiedono cultura e studio, altrimenti ci si limita all’ennesimo intrattenimento digitale.
Claudia Vanti