Questa mattina mi sono svegliato pensando a quelli che chiedono l’elemosina, in città. Quando c’è il vecchio, vestito di stracci, seduto su un foglio di cartone, con la schiena addossata alla parete sporca di piscio, il cappello con dentro qualche moneta, ed un cane addormentato a far da guardia a quel misero tesoro.
Ho pensato a quelli che chiedono l’elemosina, mentre il vecchio se ne sta lì a sperare nel tintinnio di qualche soldo, e loro mendicano, nell’armatura degli abitacoli di quelle automobilistiche protesi per l’orgoglio.
Elemosinano uno sguardo, un ammiccamento, un cenno. Elemosinano l’amore di un uomo che le corteggi, se sono donne devote alla prostituzione e alla carriera. Elemosinano la debolezza di una ragazza, se sono uomini in cerca della sazietà degli istinti. Elemosinano più soldi, perché vedono la felicità nella ricchezza e la follia nella povertà. E povertà, per loro, è sempre ciò che hanno, e ricchezza è solo ciò che ancora desiderano.
Ma non c’è moneta nei loro cappelli.
Il semaforo chiude l’occhio rosso e apre quello verde.
Le loro vite si separano, in rombanti nuvole di smog.
Corrono verso la realizzazione della loro prossima insoddisfazione.
E non c’è moneta, nei loro cappelli, che possa strappar loro un sorriso che non sia posticcio.
«Vai a lavorare…», dice un uomo, passando accanto al mendicante, e portando all’orecchio il telefono cellulare, per dare il via a transazioni che saranno fluttuazioni decisive nel burrascoso mare della finanza, ch’è goccia nella quiete placida d’un cosmo indifferente.
«Ma vai a mendicare…», dice il vecchio al lavoratore.
Ma non c’è moneta nei loro cappelli, perché non ci sarà mai antidoto per la loro miseria.
Federico di Leva
D’ARS year 53/nr 213/spring 2013