Una personalità imprevedibile, coraggiosa, piena di energia: è questo il ritratto che emerge dai ricordi di coloro che hanno conosciuto Ana Mendieta, artista cubano-americana il cui cammino artistico è stato breve ma incisivo. Ricordi raccolti in un intenso film documentario, Itali-ana. Mendieta in Rome, proiettato in anteprima assoluta presso il Castello di Rivoli – Museo d’Arte Contemporanea come parte e ideale preambolo della retrospettiva Ana Mendieta. She Got Love.
Quattordici anni di attività (1972-1985) potrebbero sembrare pochi per un comune artista, ma non per Ana Mendieta, che ha lasciato dietro di sé uno straordinario corpus di opere, così eclettico e pregno di significato da suscitare ammirazione e stupore. Gli oltre cento lavori esposti al Castello di Rivoli (una cospicua parte è costituita da fotografie e film Super8 che documentano le sue azioni), esemplarmente allestiti negli spazi della Manica Lunga secondo filoni tematici in un tragitto affascinante e per molti aspetti magico, restituiscono appieno la vitalità di una poetica dalle sfumature visionarie e al contempo politiche, permettendo di superare le limitanti definizioni sulla sfaccettata opera di questa colta e appassionata artista, spesso frettolosamente etichettata come femminista, malgrado la sua ritrosia a essere associata a qualsivoglia movimento artistico o sociale.
Nata a L’Avana nel 1948, all’età di dodici anni Ana Mendieta è costretta ad abbandonare Cuba, spedita negli Stati Uniti insieme a sua sorella dal padre anti-castrista che teme per la loro incolumità. Come afferma Beatrice Merz, curatrice della mostra insieme a Olga Gambari, “Mendieta è un’artista reale, forte dei suoi drammi interiori, scossa da felici e tragici episodi di vita, che ha saputo cogliere l’arte del suo tempo e divenirne pioniera”1. Difatti, tracce di movimenti e pratiche come Land Art, Arte Povera, Minimalismo e Body Art si intersecano nella sua ricerca, senza mai circoscriverla o costringerla. Allo stesso modo, diversi elementi autobiografici, in primis l’esperienza dello sradicamento dalla sua terra natia, vissuto come un violento distacco dal grembo materno, sono esplicitati nel suo lavoro sotto diverse forme.
Tra il “diventare un’artista o una criminale”2, la prima vocazione prevale. Mendieta frequenta l’Università dello Lowa, dove si specializza in arte e ha la fortuna di avere come visiting professor alcuni dei più importanti artisti dell’epoca, come Vito Acconci e Bruce Nauman. Da subito si orienta verso la sperimentazione di una performatività dal forte impatto visivo e simbolico. Un lavoro emblematico di questo primo periodo è, per esempio, Rape Performance, dove mostra il suo corpo nudo e insanguinato, come appena stuprato, in un gesto di aperta denuncia e presa di coscienza nei confronti di un episodio di violenza sessuale avvenuto nel suo campus universitario.
Ana Mendieta deforma, traveste, mimetizza ed esibisce il suo corpo, operando delle trasformazioni identitarie, tramutandosi di volta in volta in creatura animale, vegetale o minerale, congiungendosi in una sorta di rituale estatico e simbiotico alla terra e all’universo naturale, per ritrovare le radici della vita, per morire e rinascere, in un continuum vitale senza fine. “Credo nell’acqua, nell’aria e nella terra. Sono tutte divinità”, confessa l’artista.
Il corpo, sempre in bilico tra cruda fisicità e mistica purezza, è un refrain nella poliedrica ricerca di Mendieta. Inizialmente è presente, è il suo stesso corpo che diventa filtro, tramite con la Natura e l’energia cosmica, poi a poco a poco nelle opere successive scompare, è assente, ma reso tangibile o evocato attraverso materiali come sabbia, fango, acqua, foglie, pietre, fiori, o grazie a tecniche come la bruciatura o l’incisione: emblematica in tal senso la consistente serie delle Siluetas, riproduzioni di sagome femminili, o le Esculturas Rupestres, realizzate in un parco nei pressi de L’Avana, dove l’artista ritorna finalmente nel 1980.
Altro protagonista che ricorre in tanti lavoridi Mendieta è il sangue, rimandando all’idea di fertilità, di vitalità, al perenne ciclo di vita-morte. Il sangue cola dalla sua fronte in Sweating Blood, ricopre il suo corpo prima che si vesta di piume in Untitled (Blood and Feathers #2),diventa strumento di scrittura in Untitled (Blood Writing) o, ancora, viene cosparso su un marciapiede, suscitando nei passanti curiosità, dubbio, timore o fredda indifferenza (People Looking at Blood, Moffitt).
Il fuoco e la morte sono altresì motivi predominanti nell’opera dell’artista, accentuandone l’aura arcana e fungendo da elementi essenziali di un magico sincretismo, di un’estetica “pre-industriale”3. Come spiega Olga Gambari: “la poetica a cui ha dato vita Mendieta è una sorta di panteismo naturalistico e di animismo, un concetto di sacro in cui natura, uomo e dio si scambiano, dove si fondono elementi di cultura popolare, di antichi riti e credenze primitive, di politeismo e paganesimo, di Cattolicesimo e Santeria, di tradizione messicana e Yoruba africana”4. È per tale ragione che addentrarsi nell’universo visivo e concettuale di Ana Mendieta è come percorrere un labirinto inesplorato carico di enigmatiche suggestioni.
Solita operare nello spazio aperto della natura, l’artista ha il suo primo vero studio a Roma, dove si reca nel 1983 grazie a una borsa di studio per frequentare una residenza presso l’American Academy. La vita nella capitale e i viaggi lungo l’Italia, ricostruiti grazie a numerose testimonianze nel sopraccitato documentario diretto dalla nipote, Raquel Cecilia Mendieta, donano nuova linfa e ulteriori stimoli alla ricerca dell’artista, che per la prima volta si cimenta nella realizzazione di opere scultoree e installazioni indoor, più stabili e conservabili rispetto alla produzione precedente, dal carattere prevalentemente effimero e temporaneo. Appartengono a questo periodo opere come Totem Grove e Onile, rispettivamente tronchi d’albero recanti disegni ottenuti con la combustione da polvere da sparo e sculture da pavimento realizzate in sabbia e terra. Ma questa nuova fase è presto interrotta dalla tragica scomparsa dell’artista, avvenuta nel 1985, a causa di un incidente le cui dinamiche non sono mai state del tutto chiarite. Mendieta precipita, infatti, dal 34° piano del suo appartamento newyorkese, condiviso con il marito, il noto artista Carl Andre, sposato alcuni mesi prima, nonostante fosse legata a lui da un rapporto turbolento.
Restituire pieno riconoscimento all’opera di un’artista forte e libera come Ana Mendieta, mantenendo vivo il suo spirito immaginifico, è un atto giusto e indispensabile e la mostra in corso al Castello di Rivoli centra perfettamente questo obiettivo.
Francesca Cogoni
D’ARS year 53/nr 213/spring 2013