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MONA HATOUM – Undercurrents

Nel 1984 l’UDI – Unione Donne in Italia – di Ferrara dà vita al progetto Biennale Donna, che nel tempo si è conquistato una certa visibilità anche a livello internazionale, come la XXIII Edizione (PAC – Palazzo Massari, dal 6 aprile al 1 giugno 2008) che, in collaborazione con le Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara, ospita Undercurrents, una mostra dedicata a Mona Hatoum a cura di Lola Bonora. La sua ultima grande monografica in Italia datava 1999 presso il Castello di Rivoli (TO). Parliamo di una delle artiste più rappresentative degli ultimi decenni che ha ricevuto la menzione per il Turner Prize nel 1995 ed è stata invitata a numerose manifestazioni internazionali tra cui la Biennale di Venezia (1995 e 2005), Documenta a Kassel (2002) e la scorsa Biennale di Sydney (2006).

 

Come Shirin Neshat, Maja Bajevic, Kara Walker o la giovane Emily Jacir, anche Mona Hatoum ha sviluppato un’attenta ricerca sull’identità di genere nella società contemporanea con diverse tangenze rispetto a quel clima culturale definito post-femminista (o third wave in ambito anglosassone). Contro una riflessione filosofica essenzialista che aveva per soggetto esclusivamente la donna bianca, borghese e occidentale, dagli anni Ottanta ad oggi sono emerse gradualmente nuove istanze legate alla differenza etnica nel mondo globalizzato, al funzionamento delle strutture e dei discorsi del potere in un contesto mediale dominato da internet. Questi mutamenti di prospettiva hanno stimolato una serie di riconsiderazioni teoriche spesso affiancate da pratiche artistiche altrettanto eloquenti e radicali. La stessa identità di genere non viene più considerata normativa bensì mobile, performante, in transito: una costruzione complessa che passa attraverso narrazioni e rappresentazioni mediate dalla forza dell’immagine. Nella realtà postmoderna, infatti, gli stereotipi sono codificati secondo un regime visuale di riconoscimento e differenziazione dove ogni categoria sessuale, storicamente determinata, funziona come strumento di organizzazione dei rapporti sociali. Perciò molte artiste hanno sentito la necessità d’interrogarsi su questi punti, soprattutto se portatrici di un’esperienza di vita profondamente segnata dalle questioni identitarie. È il caso di Mona Hatoum: palestinese, nata a Beirut nel 1952 e costretta all’esilio nel 1975 quando, durante un suo viaggio a Londra, scoppia la guerra civile in Libano.

Mona Hatoum, Misbah, 2006, Lanterna di ottone, catena metallica, lampadina, motorino rotante, dimensioni della lanterna cm 60 x 36 x 30  Courtesy: l’artista © foto Marc Domage
Mona Hatoum, Misbah, 2006, Lanterna di ottone, catena metallica, lampadina, motorino rotante, dimensioni della lanterna cm 60 x 36 x 30 Courtesy: l’artista © foto Marc Domage

La selezione di lavori presentati a Ferrara ricostruisce in modo esemplare il percorso tracciato durante questi venticinque anni di carriera. L’esordio avviene dopo gli studi artistici a Londra sotto l’urgenza di riappropriarsi del corpo per elaborare un linguaggio radicato nella fisicità femminile come territorio di conflitti e paradossi. Lo provano i video So Much I Want To Say (1983) e Roadworks (1985) che documentano performance dure, dirette, ispirate da un profondo senso di rabbia e impotenza. C’è anche Measures Of Distance (1988) l’opera più apertamente autobiografica di Mona Hatoum dove il corpo della madre diffonde memorie, risonanze e parole nel tentativo di materializzare una distanza incolmabile. Ripresa nuda sotto la doccia, la sua immagine è velata da un testo in arabo mentre si sovrappongono due voci: l’artista che legge con distacco, in lingua inglese, il contenuto di alcune lettere alla madre e una loro animata conversazione in arabo.

Mona Hotoum, Grater Divide, 2002, Ferro, cm 204 x 3,5, larghezza variabile, Courtesy: l’artista e Jay Jopling / White Cube, Londra © foto Iain Dickens
Mona Hotoum, Grater Divide, 2002, Ferro, cm 204 x 3,5, larghezza variabile, Courtesy: l’artista e Jay Jopling / White Cube, Londra © foto Iain Dickens

Se la necessità di narrazione personale si è gradualmente stemperata, il corpo, invece, resta una chiave di lettura indispensabile per comprendere anche la produzione recente di Mona Hatoum, ormai lontana dalla dimensione performativa. Ciò non significa che abbia abbandonato il legame con la sua storia. Anzi ha scelto di non raccontarla più in prima persona per “consegnarla” alle forme dell’arte, per condividerla con un tempo fatto di guerre e contraddizioni, per mostrare come certi meccanismi di potere agiscano continuamente nella quotidianità laddove ci sentiamo più sicuri. Di conseguenza le sue installazioni sono, innanzi tutto, pensate per disorientare il fruitore: a prima vista rassicuranti e leggibili, in realtà, contengono degli oggetti incongrui, inattesi, quasi fossero usciti da un incubo. Succede in Misbah (2006): una stanza illuminata da una tipica lanterna araba che, insieme ai motivi a stella, riflette anche le sagome dei soldati, richiamando la guerra, dentro un turbine spettrale di luci e ombre. Un displacement con esplicite ascendenze surrealiste e minimaliste il cui scopo è proprio quello di mettere in discussione la verità delle nostre percezioni sensoriali. La casa costituisce uno dei riferimenti principali nelle operazioni di Mona Hatoum. Sono, per esempio, gli oggetti domestici di Doormat II (2000-2001), Grater Divide (2002) o Dormiente (2008) a evocare contesti poco rassicuranti che alludono al ruolo e all’identità femminile. Deep Throat (1996) condensa in maniera emblematica questa tensione tra corpo e oggettualità: nel piatto bianco sopra un tavolo apparecchiato, anziché una pietanza, appare il video di un’ispezione endoscopica a cui si è sottoposta l’artista.

Clara Carpanini

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