Sono pochi i luoghi al mondo in cui il valore dell’arte urbana assume una connotazione pubblica, di vera e sentita appartenenza alla comunità, come nei paesi dell’America Latina. Dove in Messico la grande stagione muralista fomenta con la sua pesante eredità le nuove generazioni di artisti, non da meno in Brasile, altro paese dalla sontuosa ricchezza culturale, numerosi fermenti e significati – nonché assoluta tipicità – esaltano una scenografia artistica urban tra le più interessanti osservabili sulla carta dell’intero globo. Da Città del Messico a San Paolo (São Paulo), da gigante a gigante, le proporzioni di questi super agglomerati di cemento non cambiano: “non resta che fuggire, o far parte di ciò, l’ultima opzione è esattamente la storia dei graffiti”[1].
Sebbene l’estesissima rete urbana del Brasile favorisca liquidità alla circolazione di Street art e graffiti – Rio e Curitiba registrano sensibili focolai – San Paolo ne costituisce l’indiscusso epicentro, tanto che il titolo di città più grande dell’emisfero australe è direttamente proporzionale a quello di capitale dei graffiti, una sorta di New York del Sud, bensì con una sua autonomia definita. Il patrimonio genetico del graffitismo paulista è perfettamente indigeno e corrisponde al DNA Pixação, una forma di espressione segnica completamente autoctona, differente dai graffiti americani e praticata orgogliosamente come tale dai pixadores. Pixe in portoghese significa catrame, e la storia del Pixação (lett. scrivere col catrame) parte esattamente da azioni di protesta che già a partire dagli anni Quaranta sino all’epoca del regime militare degli anni Sessanta hanno supportato il malcontento degli operai e delle classi più povere nei confronti della politica e dei suoi slogan, ribaltati da quelli in catrame. L’opposizione di tipo politico si trasforma dalla fine degli anni Ottanta in volontà di affermazione, adrenalina e resistenza sociale.
Come i kids newyorkesi, ma con modalità che prescindono da qualsiasi rivendicazione artistica, i pixadores di San Paolo – i più dei quali provenienti dalle disastrate favelas della città – non accettano i ripidi squilibri e l’ingiustizia sociale che grava sul paese carioca e preferiscono provocare odio piuttosto che indifferenza, conquistando uno spazio alla propria libertà di espressione. Questo approccio militante è sopravvissuto nel tempo, allontanando possibili cooptazioni artistico-creative, già più evidenti nel Grapixo, forma ibrida che incorpora alcuni elementi basilari della prima evoluzione stilistica dei graffiti americani. Pixação è azione prima che stile; quest’ultimo, pur rimanendo al grado di crudo alfabeto segnico, è estremamente ricco in varietà di fogge e rielaborazioni, tutte discendenti dai caratterini runici[2] nella misura in cui questi hanno dato sembianza ai loghi della band heavy metal che negli anni Ottanta hanno spopolato in Brasile. Queste lettere, nere e aguzze, caratterizzano l’autenticità del Pixação tanto quanto la sua pratica, che avviene oltre ogni limite di pericolosità e rischio.
Ogni forma di arte urbana è prodotto del suo ambiente e il nugolo di alti palazzoni bianchi che contraddistingue l’orizzonte di questa megacittà da venti milioni di abitanti diventa – come i billboards a Los Angeles o la subway a New York – un target irrinunciabile. I pixadores si arrampicano a mani nude scalando balconi e aggrappandosi a ogni sorta di appiglio, oppure allungano i rulli di vernice a testa in giù dai tetti, tesi a raggiungere le pareti perfette, quelle più alte e risaltanti. Non è raro per le strade di San Paolo incontrare interi palazzi interamente bombardati da alfabeti verticali o vedere ragazzini di notte rischiare la vita a decine di metri d’altezza a solo vantaggio del nome della propria crew e della propria grife[3].
Meno originale il ruolo interpretato dalla cultura hip-hop che, parallelamente alla nascita del Pixação, inizia la sua opera di contaminazione locale. Esemplare nella penetrazione del linguaggio del graffitismo americano è nel 1993 il fecondo incontro tra Barry McGee e i gemelli Otavio e Gustavo Pandolfo, globalmente conosciuti come Os Gemeos. I due, già attivi sin dal 1987 nel quartiere di Cambuci, sono profondamente influenzati dal già affermato artista californiano che mostra loro dal vivo tag e throw up nonché fondamentali documentari come Style Wars. Mc Gee sarà decisivo nel stimolare Os Gemeos verso la ricerca di un proprio stile, sfociato poi figurativamente nei personaggi gialli e sottili dallo sguardo inerte che li hanno resi tra i più celebri urban artist al mondo.
Egidio Emiliano Bianco
[1] Os Gemeos, da Cidade Cinza, 2013
[2] Alfabeto segnico usato dalle antiche popolazioni germaniche
[3] Gruppo formato da diverse crew