Quella di Gioni è una Biennale “diversa” fin dall’inizio. L’ingresso al padiglione centrale della Biennale è l’ingresso in un tempio o in un museo d’altri tempi: nella prima stanza il Liber Novus, anche conosciuto come Libro Rosso, un manoscritto miniato di Carl Gustav Jung, è al centro quale reliquia rituale, nella seconda, l’immenso atrio, l’universo sembra intravedersi al di là di centinaia di finestre oscure: sono le lavagne recante schemi, diagrammi, spiegazioni realizzate da Rudolph Steiner durante le conferenze da lui tenute sulla coscienza universale. Bastano questi due ingombranti nomi (non artisti, notare) a spalancare un abisso davanti all’osservatore, e a indurlo a ripensare alla funzione stessa dell’arte nell’oggi. La Biennale di Bice Curiger si apriva con Tintoretto, e già in quel caso tremavano un poco i polsi all’ingresso, ma poi – ferma restante la qualità e la pregnanza di quella esposizione – ci si ritrovava rassicurati e un po’ annoiati fra arte che parlava di (e forse a) sé stessa. E Tintoretto quasi poteva essere scambiato per l’ennesima installazione concettuale.
Biennale 2013: al di là dell’affascinante concept del Palazzo Enciclopedico, che invece, aperto dal monumentale plastico di Marino Auriti, domina la Wunderkammer all’Arsenale, museo immaginario e ordinato dall’inanimato all’animale, al vegetale all’artificiale, cosa implica l’apertura dal padiglione centrale, che getta un occhio verso la fonte inesauribile d’immagini interiore – l’inconscio, coscienza collettiva junghiana, e uno verso l’infinità dell’immagine cosmica, nell’idea del filosofo-antroposofo Steiner che cerca sincretismo tra scienza, filosofia e misticismo? “Solo uno su un milione, potrebbe costringere il cervello a cedere i molti segreti ereditati in migliaia di anni. Una volta aperta questa porta d’ingresso, la capacità creativa sarebbe cosa facile” – da una registrazione di Eugene Von Bruechenheim, artista ‘naif’ presente nella mostra la cui opera “rimase in larga parte sconosciuta”, la citazione è illuminante. L’incipit vertiginoso della mostra implica quindi un ripensamento, o una riscoperta delle basi del fare arte. Immagini e “oggetti” prodotti da dilettanti, professionisti ma non in arte, autodidatti, mistici, ricettori di rivelazioni, comunicatori con realtà altre, malati psichiatrici, sebbene affiancati sì da un’ottima rosa di artisti contemporanei professionisti, turbano il solito, asettico spazio espositivo con immagini pregne, talismaniche, parlanti. Vedere per credere le composizioni sovrumane di Augustin Lesage, le cui mani erano guidate da voci spiritiche, caleidoscopi destrutturati e strutturati in fregi indescrivibili, o la sculture sintetico-totemica di Walter Pichler, che potrebbe essere stata realizzata ieri o ritrovata fra le vestigia di una civiltà sconosciuta. Immagini che guardano lo spettatore e parlano al nostro spirito primordiale – finalmente – arte piena di forza magica come i dipinti preistorici di Lascaux, dove dipingere un bisonte era compiere un incantesimo e catturarlo nella realtà. Pensiamo ai dipinti di Guo Fengyi, immagini fantasmatiche viste come totem in gradi di contrastare l’epidemia della SARS, o agli stilizzati lingam di Shiva, divenuti forma cosmica e astratta di contemplazione meditativa nei disegni anonimi indiani. Ma non serve per forza il disegno naif dello sciamano a restituire forza magica all’opera d’arte, ci sono esempi in mostra di contemporanei capace di questo: bastino l’opera di Dahn Vo, o la forma primordiale di Cuoghi.
E qui la ovvia critica: si accantona momentaneamente molto del percorso dell’arte contemporanea, mancano etica, politica, società, critica del presente. E’ chiaro: al di là del richiamo all’attualità di Internet come possibile piattaforma per il sapere totale attorno a cui ruotano molte delle ossessioni storiche enciclopediche ricordate in mostra e nei testi critici e scientifici del catalogo, e alla riflessione sull’attuale società dell’immagine globalizzata, la mostra fa un passo indietro. Accoglie l’intero Novecento, ma chiude a una buona parte di esso: quella dell’arte più processuale e concettualista. Ne risultano esaltate le esperienze immaginali e immaginifiche, surreali e simboliche: operazione critica coraggiosa e controcorrente, che ha l’effetto di additare le mancanze e l’autoreferenzialità del fare arte oggi. L’arte al tempo della crisi di tutto, dell’apocalisse dell’umano forse, come getta uno sguardo avanti? Forse facendo come la fisica, che giunta al massimo grado di razionalizzazione deve guardare all’infinitamente piccolo e scoprire l’indeterminato, l’ubiquo, il campo unificato. Allora si accantonano i libri di fisica scritti fin’ora – non perché non siano più validi, ma perché siamo su un’altra scala, si guarda all’universale – e si cerca il primordiale, l’aleph, la sintesi enciclopedica (non illuministicamente parlando, ma intuitivamente) di tutto l’intelligibile.
Se l’altare atomizzato di Roger Hiorns può essere monito dell’apocalisse possibile del mondo umano industrializzato, le pareti del Padiglione centrale e dell’Arsenale già ospitano le finestre su una nuova realtà che si rigenera sempre sulla base degli archetipi primordiali, immutabili perché sempre mutanti. Nel padiglione centrale sono ospitati alcuni dipinti di Lady Frieda Harris, realizzati sotto la direzione di Aleister Crowley, che sono alla base del mazzo di tarocchi voluto dal “più grande occultista dell’era moderna”. I tarocchi sono da Crowley trattati come libro sapienziale per immagini capace di racchiudere l’intero cosmo per corrispondenze, elementi, numeri e intrecci di simbologia. Dal Libro Rosso di Jung al Libro di Thoth, come Crowley chiamava le sue carte investendole di un’ascendenza mitica egizia.
Il Palazzo Enciclopedico dà quindi spazio agli accostamenti automatici, al di fuori della logica in una visione olistica, che cerca quella scintilla di conoscenza pura nelle opere più disparate. Che passa sia dalla produzione dell’immagine di nuovo magica e parlante che dalla devozione/ossessione per un metodo che porta ad opere energeticamente caricate, che dalla catalogazione dell’esistente trasfigurato dal suo essere reimmaginato e quindi divenuto altro, per finire con un accenno al sovrumano. Che si vedano i contatti con entità e realtà “altre” come un ricollegarsi alla nostra coscienza primordiale-animale, o a un dialogo con l’inconscio, o a un effettivo contatto con qualcosa di non altrimenti spiegabile, la componente visionaria e magico-spiritica è innegabile nella mostra di Gioni sebbene lui dichiari: “non è una mostra sui medium” semmai su noi stessi come media di immagini, posseduti da esse. Non è nemmeno una mostra sull’esoterismo. Eppure molto del fascino del Palazzo Enciclopedico sta proprio nell’accogliere al suo interno oggetti attivi, o forse che possono essere caricati e fungere da talismani più delle solite opere d’arte, abitate dal concetto dell’artista più consapevole, difficilmente aperte.
Alessandro Azzoni
D’ARS year 53/nr 214/summer 2013