Tra i protagonisti degli 88 padiglioni nazionali e della mostra Il Palazzo enciclopedico, costruita attorno alla volontà curatoriale di approfondire la relazione tra le immagini interiori – i nostri sogni e le nostre visioni – e le immagini esteriori, si scoprono involontarie connessioni tra quegli artisti che hanno scelto di far interpretare le proprie opere a soggetti comunemente considerati ai margini perché limitati del punto di vista del linguaggio o della libertà, a causa di disabilità o di condotte morali considerate imperfette, ma di cui si scopre il fondamentale contributo alla creazione di progetti per questo motivo non meno strutturati, non meno poetici e non meno efficaci nel loro potenziale comunicativo. Tutt’altro. I primi due sono made in Italy, il terzo arriva dalla Polonia. Rossella Biscotti presenta un progetto che ha coinvolto il carcere femminile dell’isola della Giudecca a Venezia, nei mesi che hanno preceduto l’inizio della Biennale: I dreamt that you changed into a cat…gatto…ha ha ha. Tutto è iniziato con una lecture in cui l’artista ha mostrato alle detenute intenzionate a collaborare, i propri lavori, nei quali l’intento è sempre stato quello di ricostruire memorie personali e collettive, restituendole alla percezione della contemporaneità e aprendo nuove possibilità di immaginazione. Il carcere si è trasformato così in un laboratorio onirico, in cui le detenute hanno raccontato i propri sogni, nei quali è emerso un denominatore comune, l’impossibilità/incapacità di esprimersi: come una ragazza sogna di essere nel bel mezzo di un’esecuzione pianistica e di accorgersi che le proprie dita si stanno pian piano accorciando fino a sparire, così un’altra immagina di sentire dei rumori di passi all’interno della cella, segno che un’altra detenuta sta uscendo; un chewing-gum le trattiene le scarpe attaccate al pavimento. In Biennale sono presenti due lavori nati proprio da questa esperienza: un’installazione in compost, nata da una raccolta di materiale organico in cui sono state coinvolte le detenute, esperienza che possiamo considerare simbolica in quanto queste sculture sono poi “evase”, dal carcere, per essere esposte all’Arsenale; un montaggio audio che raccoglie i racconti dei sogni delle detenute, diffuso vicino alle sculture alle quattro del pomeriggio, orario significativo in quanto era il momento della giornata in cui iniziava il laboratorio onirico. Si scopre così che la dimensione del sogno va ad annullare, nel caso sia mai esistita, la differenza tra quelle donne e noi: la mancata libertà causata dalla detenzione forzata non intacca la libertà di avere desideri, aspirazioni, obiettivi.
Nelle Sale d’Armi dell’Arsenale attraversiamo il Padiglione della Santa Sede, all’esordio assoluto in Biennale con un progetto ispirato al racconto biblico della Genesi, in particolare ai primi undici capitoli. Una prima esperienza che immediatamente rilancia un dialogo tra committenza e arte contemporanea interrotto da tempo e che è andata a identificare tre sezioni tematiche comunicanti: la Creazione, assegnata a Studio Azzurro; la De-Creazione, per cui è stato scelto il fotografo ceco Josef Koudelka; la Ri-Creazione, interpretata da Lawrence Carroll. È l’esperienza nel campo dei nuovi media di Studio Azzurro a legarsi al lavoro di Rossella Biscotti: In principio (e poi) è un ambiente sensibile, in luminescente oscurità, che interpreta il tema delle origini e del rapporto dell’uomo con lo spazio e il tempo, assegnando il compito della narrazione a soggetti in costrizione non solo di spazio, come i carcerati, ma anche di linguaggio, nel caso dei sordomuti. Le mani degli spettatori sono lo strumento che attiva l’opera, nella quale siamo invitati ad immergerci anziché assistere alla sua rappresentazione, interrogando questi personaggi portatori di storie. Il lavoro di Studio Azzurro è pensato secondo quattro parti sequenziali, rappresentate dalle quattro lastre che compongono questa videoinstallazione interattiva: la prima, Et sic in infinitum, nasce sulla tavola orizzontale al centro della stanza, per rappresentare il respiro del cosmo, che si espande e si contrae ritmicamente, generando organismi che seguono le tracce della nostra interazione. Le successive tavole verticali di sinistra e di destra – E POI… senza parole – ci permettono di scoprire che il linguaggio verbale non è fondamentale per raccontare storie: i sordomuti trasformano, attraverso il linguaggio dei segni, i nomi di piante e animali, definiti piccoli ecosistemi da costruire e, talvolta, da ricostruire – generando forme ed emettendo suoni che descrivono una particolare creazione. Siamo sempre noi spettatori ad avviare l’esperienza, connettendoci all’opera, interrogando queste persone con le nostre mani. Attraverso l’ultima tavola verticale frontale – E POI… senza spazio, senza tempo – entriamo in relazione con la memoria di uomini e donne incarcerati, che, costretti appunto in condizioni limitate di spazio e di tempo, ripercorrono la propria genealogia come fosse una lunga elencazione biblica.
Un’ultima opera che coinvolge individui con handicap fisici è Blindly, il video dell’artista polacco Artur Zmijewski, che esplora il comportamento di un gruppo di ciechi nella realizzazione di dipinti, sia autoritratti che paesaggi. L’artista mette a loro disposizione grandi fogli, attaccati a terra con lo scotch e al muro con delle puntine, sui quali i ragazzi stendono il colore con grande impegno e divertimento, utilizzando non solo i pennelli, ma anche le mani e i piedi, a favore di un contatto più diretto con la materia. È interessante assistere a un laboratorio di pittura che coinvolge individui con limitazioni sensoriali, ma ugualmente in grado di sviluppare un peculiare immaginario, veicolo di messaggi ed emozioni. Già nel 2003, con il video Singing lesson 2, l’artista ha indagato potenzialità e limiti della disabilità facendo eseguire a un gruppo di adolescenti non udenti una selezione di brani di Bach, con risultati cacofonici, ma comunque emotivamente coinvolgenti. La scelta di assegnare a un gruppo di persone diversamente abili un compito che a priori potrebbe risultare per loro impossibile non deve essere fraintesa: lontano dal voler provocare un sentimento di compassione nello spettatore, Zmijewski ha come obiettivo finale l’accettazione completa dell’altro.
Valentina Tovaglia
D’ARS year 53/nr 214/summer 2013