Save Yourself. Siamo nei guai seri: chi ci salverà? Indipendentemente dal titolo, sottratto all’ installazione dell’artista neozelandese Francis Upritchard, mi sembra che questa affermazione calzi a pennello al momento che l’arte contemporanea sta attraversando. E’ un comando? Una supplica? Un suggerimento?
La partecipazione della giovane artista neozelandese in questa Biennale veneziana è al primo piano di palazzo Mangilli-Valmarana; una dimora storica affacciata sul Canal Grande che dal 2008 ospita la Fondazione Claudio Buziol e il suo programma di studi ed esposizioni di giovani talenti, designer e artisti. La locazione della mostra nelle tre stanze dell’antico palazzo è stata scelta dall’artista stessa che ha desiderato realizzare un suo “mondo”, o meglio una sua inquietante visione del mondo, popolato da strane piccole sculture, una sorta di folletti primordiali, personaggi che affondano le radici nella sua infanzia in Nuova Zelanda, ma che sono visibilmente collegati al suo presente europeo, “…come arte medioevale sistemata e ridipinta da un rivoluzionario futurista colto nel bel mezzo di un sogno selvaggio.” (Francis Upritchard)
Questi personaggi che sembrano usciti da un quadro di Bosch o Bruegel sono a loro agio nelle sontuose stanze del palazzo veneziano; ironici e sardonici, alcuni grotteschi nell’espressione e negli atteggiamenti, vivono in un’ambientazione creata dall’artista stessa, fra lampade fatte a mano, oggetti e tronchi d’albero dipinti, si proiettano negli eleganti specchi antichi delle sale. Vogliono alludere forse all’illusione di una visione ancestrale come punto di salvezza dell’uomo contemporaneo? Sono piccoli mondi popolati di anti-eroi, personaggi pieni di difetti, dove non esiste una cultura dominante, ma la presa di coscienza di una comprensione dialettica del nostro passato. Francis Upritchard non è l’unica artista presente in questa edizione della Biennale veneziana a volgere uno sguardo al passato, a ricercare nelle tradizioni e negli usi della propria terra un contesto che non è solo denuncia, ma soprattutto, testimonianza dell’esistenza di un legame fra ”mondi” lontani, nel tempo e nello spazio. In questa ottica è da leggere l’esperimento di Owanto, alias Yvette Berger, l’artista scelta a rappresentare il Gabon alla prima partecipazione del paese africano a Venezia; è “il faro della memoria”, il nome della madre che affiora e diviene nome d’arte dell’artista. “Where are we going?” la domanda chi si pone l’artista; lo sguardo di Owanto che rivolge dall’ Africa è uno sguardo disincantato e nello stesso tempo ottimista, perché la sua terra ha molto da offrire, non tanto in campo economico, scientifico o tecnico, ma etico. I segnali stradali, i light box dalla figurazione schematizzata hanno come punto di partenza idee semplici e basilari di una società che il mondo occidentale vede pian piano dissolversi, quali l’unità familiare, ma, soprattutto, la ricorrente figura femminile che affonda le radici nella profonda spiritualità degli antenati.
Il passato recente, la memoria dell’età dell’oro del cinema di Singapore è l’originale allestimento ideato da Tang Fu Kuen che ha chiamato l’artista visuale Ming Wong, a ideare a Palazzo Michiel del Brusa “Life of Imitation”. Come nella hall di un vecchio cinema anni ’50 si respira un’aria retrò; il grande lampadario di Murano, antico e scintillante, i comodi sofà, e la biglietteria ci riportano indietro nel tempo. Si viene accolti dal manifesto che rende omaggio a Pier Paolo Pasolini: “Devo partire domani”, prodotto da Ming Wong, basato su ”Teorema” di P.P.Pasolini. La storia narra che Singapore, prima di raggiungere l’indipendenza, nel 1965, rappresentasse la punta di diamante dell’industria della celluloide del sud est asiatico: la ricchezza culturale della città stava nella sua multietnicità, erano aperte un numero incredibile di sale cinematografiche, che Ming Wong documenta con foto d’epoca, sale che andarono in disuso quando l’industria cinematografica crollò. L’operazione di recupero e documentazione dell’artista e del curatore vuole essere una rivisitazione dell’eredità ricca, ma dimenticata, del loro paese, attraverso l’uso di diversi linguaggi-video, performance, interviste, fotografie, manifesti, locandine cinematografiche.
Questo desiderio autobiografico di capire il passato, di recuperare valori legati alla propria terra, sembra essere un leitmotiv che ha accompagnato molte delle espressioni artistiche di questa edizione 2009 della Biennale: dall’intervento di Gonkar Gyatso che rivisita i tradizionali dipinti tibetani thangka ottenendo sintesi di linguaggio, alla chiassosa ricostruzione del villaggio tribale di Pascale Marthine Tayou, a testimonianza che una delle più profonde contraddizioni dell’epoca in cui viviamo è la conservazione del nostro passato. Emerge ironico, violento, nostalgico, ma comunque teso a stabilire una connessione immediata con le nuove generazioni; nelle espressioni più riuscite un arricchimento culturale che esplora nuove dimensioni espressive, materiali e tecniche innovative insieme a quelle più tradizionali.
Simonetta Panciera
D’ARS year 49/nr 198/summer 2009