The more things change, the more they remain the same, only the pace is different.
Venezia, Giugno 2009: la città apre le sue porte, a malincuore come sempre, a rappresentanti della scena artistica internazionale per dare il via alla tre giorni di conferenze stampa, inaugurazioni, feste e performance che aprono la 53. Biennale di Venezia.
Durante la vernice per la stampa la città viene invasa da una folla di giornalisti, critici, artisti e, a giudicare dai panfili ancorati di fronte ai Giardini, magnati della finanza (tra i pochi sopravvissuti all’era post-Madoff) o superstar di Hollywood. Una folla eclettica, elegante, benvestita e dalle maniere sofisticate contribuisce a rafforzare l’ipotesi che, sebbene il mondo dell’economia e della finanza stia ovviamente sanguinando sofferente (specie sul continente americano), la cultura, o perlomeno i personaggi che ruotano intorno a pulsanti kermesse come la Biennale di Venezia, non sembra risentirne. C’è da domandarsi se le belle signore agghindate con eccentriche collane, raffinate scarpe, ed abiti di sartoria appartengano veramente alla categoria di protettori della cultura, diffusori dell’informazione o critici della stessa. C’è da domandarsi se in un contesto in cui le più grandi testate del mondo stanno chiudendo i battenti delle proprie edizioni cartacee per auto-combustione del sistema dell’informazione, ed anche gli intoccabili baroni della carta stampata vengono rispediti in patria dai loro esotici avamposti d’oltreoceano, ci sia ancora spazio per una “glamour-izzazione” della cultura, o se tutto questo faccia capo ancora una volta ad una facciata di apparenza che ben poco ha a che vedere con la comunicazione culturale. In un momento storico in cui i motori stessi che hanno fatto per decenni muovere flussi di esseri umani e incalcolabili ricchezze vengono messi in discussione per dare spazio ad una percezione del consumo più razionale ed in linea con le effettive necessità, ci si dovrebbe domandare, specie nella vecchia e decadente Europa, se forse non sarebbe stato più sensato essere rapiti da inusitata originalità di stile o di contenuti delle opere in mostra, piuttosto che da spettacolari mise e accessori di moda.
Come anche in altre edizioni, abbiamo riscontrato una certa disomogeneità nel livello delle opere in mostra e nella qualità dei contenuti: 77 nazioni, 90 artisti, sedi espositive tradizionali e non, artisti emergenti, pionieri dell’arte e grandissimi nomi della scena internazionale e poi, per la prima volta nella storia della Biennale, una partecipazione nazionale degli Emirati Arabi, senza dubbio uno degli interventi concettualmente più interessanti.
La 53. Biennale di Venezia è stata per noi la Biennale del glamour; la Biennale dell’Europa (pochi infatti i giornalisti d’oltreoceano); la Biennale delle ingiustificate code davanti a padiglioni volutamente vuoti; la Biennale di video sempre più inintelligibili; la Biennale di interminabili e noiose didascalie; la Biennale dell’astrazione; la Biennale “dell’IKEA”, con padiglioni nazionali il cui protagonista arriva a diventare un gatto impagliato che filosofeggia su scaffalature di legno; la Biennale in cui il Leone d’Oro viene dato agli Stati Uniti, paese che si suppone sia in recessione culturale: insomma, ancora volta la Biennale di tanti effetti speciali ma pochi contenuti.
Uno degli interventi più interessanti e invece imbevuto di vibrante energia è senza dubbio quello degli Emirati Arabi, per la prima volta presenti a Venezia con due diverse sedi, la partecipazione nazionale con un “padiglione” all’Arsenale, e la presenza come uno degli eventi collaterali ufficiali, sempre nell’area dell’Arsenale con la presentazione di ADACH, la piattaforma per le arti visive di Abu Dhabi.
In ambedue gli interventi si presenta attraverso un corpo di opere fotografiche, plastici, videoinstallazioni, e interventi multimediali, un fermento culturale che pone indubbiamente gli Emirati Arabi al centro della scena artistica internazionale. Ecco dunque che IL luogo al mondo simbolo per eccellenza della crescita esponenziale e irrefrenabile nel settore immobiliare, caratterizzato dal gusto per uno sfarzo un po’ posticcio basato su un vero e proprio culto del denaro e di una ricchezza sfrenata, si trasforma in promotore di pulsante rinascita artistica e culturale, attraverso una fitta rete di scambi internazionali che nascono entro la cornice di un sorprendente sviluppo urbano, una popolazione multietnica e plurinazionale che inventa nuovi stili di vita, una riorganizzazione della regione, delle sue dinamiche economiche e geopolitiche e degli scambi con il mondo.
I due interventi a Venezia presentano in maniera totalmente inusitata la nascita di un polo culturale senza precedenti, visto come un “punto d’incontro per il dialogo e la produzione artistica, nonché per l’indagine e l’analisi delle attuali condizioni di sviluppo delle arti visive contemporanee”. Il mondo arabo diventa quindi un centro propulsore e trainante in un contesto di stagnazione economica e forse anche culturale, invitando alla riflessione, alla pausa, all’analisi del reale attraverso l’abbandono di cliché e convenzioni, spostando il punto di vista dall’arte verso lo spettatore, come il nome stesso del padiglione nazionale evoca: “it’s not me, it’s you”. La mostra, una combinazione tra elementi architettonici e scenografici, vuole imporre un momento di calma, di impassibile riflessione in contrasto alla frenesia della Biennale, pausa e riflessione accentuate anche dalla struttura architettonica stessa del padiglione, segnata da un sinuoso muro curvo che simboleggia un metaforico rifugio per i visitatori dalla pressione alla spettacolarizzazione in atto in gran parte dell’arte di oggi.
Chiara Carfi
D’ARS year 49/nr 198/summer 2009