La rivista nel 2022 è stata trasformata in archivio di contenuti.

“Nella tempesta” di Motus: il teatro come utopia realizzabile

Per portare avanti il 2011>2068 AnimalePolitico Project – avviato con The Plot is the Revolution – Motus incontra La tempesta di Shakespeare per mettere a tema – e forse potremmo anche dire in fila – le questioni dell’oggi che caratterizzano il loro teatro riflessivo.

Nella tempesta (visto a Mein Herz – Drodesera XXXIII) lavora sulle istanze centrali nella riflessione di Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande: la questione del potere e del rapporto fra generazioni trattata attraverso i rapporti dialettici e controversi fra utopia possibile e sorveglianza/controllo (distopia).
Il tutto sotto la lente di un teatro/non teatro costantemente sotto auto-osservazione, che non smette di porsi una domanda sul suo funzionamento – con il dispositivo meta-teatrale – e più ancora sul suo compito e senso nella congiuntura storico-sociale, politica ed economica. In quest’ottica lo spettacolo va inteso come una risposta possibile che però non è mai affermativa quanto piuttosto propositiva di un punto di vista o di un orientamento di sguardo da proporre allo spettatore.
C’è insomma un filo rosso che tiene insieme l’attitudine al mutamento e al movimento che per Motus, si sa, non è solo una questione di nome ma teoria e pratica del viaggio, della ricerca, dell’incontro con le fonti – sia umane sia letterarie – da ricombinare per la resa di uno spettacolo da intendersi in chiave processuale, mai concluso una volta per tutte e addirittura pensato per essere portato fuori dal teatro.
Senza contare il fatto che la richiesta al pubblico di arrivare a teatro portando con sé una coperta – che verrà usata durante lo spettacolo e lasciata lì  per poi essere donata a quelle realtà sul territorio che possano riutilizzarla – connota il lavoro in termini di processo anche dal punto di vista temporale: lo spettacolo inizia ben prima dell’entrata in teatro e durerà, per lo spettatore che ha lasciato una cosa sua, anche dopo…

Nella Tempesta foto © Andrea Gallo
Nella Tempesta foto © Andrea Gallo

Drammaturgicamente stratificato e complesso il testo scenico va visto nel suo insieme alla luce di quel rapporto fra forma e contenuto che è la cifra stilistica di Motus, perché non esistono cose da dire senza un “come” che le componga. In questo caso viene attivato un dispositivo a partire dai testi. Punto di avvio necessario per l’osservazione di secondo ordine e la riflessività interna, cioè per far sì che lo spettacolo si affidi prima alle parole di altri da ricompattare nella costruzione complessiva del lavoro. Dove quest’ultimo è il frutto dell’incrocio, fra i molti riferimenti, del testo shakespeariano e la sua riscrittura in chiave post-coloniale di Aimé Césaire (Une Tempête), la science fiction – Philip K. Dick, Brave New World di Aldous Huxley – e Les Sentiers de l’Utopie di Isabelle Fremeaux e John Jordan. Materiale letterario cui aggiungere altro materiale vivo: il contributo degli attori, che attinge alle loro biografie personali, le interviste e le testimonianze raccolte in giro nei viaggi, in Tunisia ad esempio, elementi ricavati dai workshop, come quello al Teatro Valle Occupato di Roma. Il tutto per proporre un’idea di utopia realizzabile che sostituisce un atteggiamento antagonista chiuso con uno aperto, capace di entrare in dialogo con le istituzioni e con un sistema che può essere cambiato solo dall’interno. (Casagrande e Nicolò ne hanno parlato ad esempio qui).

Macchia2
Nella Tempesta foto © Andrea Macchia

Perciò stare Nella tempesta vuol dire affrontare attivamente quella tempesta macro-sociale che stiamo affrontando, ma anche quelle micro e personali; può voler dire lasciarsi attraversare o scatenarla – basterebbe per capirlo risentire le parole di Judith Malina in un frammento audio dello spettacolo in cui sollecita ad andare incontro alle tempeste e non ad evitarle – ma anche cogliere l’opportunità di fermarsi e contemplare. Qui ad esempio l’uragano Sandy – con i Motus a New York proprio durante il suo passaggio – viene raccontato da Silvia Calderoni/Ariel come sospensione forzata dagli impegni quotidiani e dalle routine che può diventare un’occasione per riflettere sulla “nostra” normalità.
Come la normalità dell’essere guardati senza vedere. Tema della video-sorveglianza, quindi del controllo e del potere (Foucault) che viene trattato con la telecamera che riprende gli attori dai camerini, mentre parlano fra loro e mettendo a parte il pubblico di quella intimità. Fino a quando uno di loro non guarda in camera e ci ricorda che la disponibilità alla comunicazione, e all’essere guardati, va ricondotta ad una nuova relazione fra pubblico e privato, verso dimensioni dell’intimità che non sono più quelle del passato. Sta di fatto che la messa a tema del guardare serve per ridisegnare i confini fra un dentro e un fuori, come quando vediamo Silvia Calderoni in video mentre rientra in scena dall’esterno della sala, sempre sotto i nostri occhi anche quando non è presente.

Ed è proprio il rapporto con il pubblico un altro punto cruciale. Prima di tutto grazie alla parola. La dimensione performativa e fisica – espressa in maniera potente da Silvia Calderoni insieme a Glen Çaçi, Ilenia Caleo, Fortunato Leccese, Paola Stella Minni – infatti lascia più spazio ai dialoghi, ai monologhi affidando così al linguaggio – e alla parola non recitata ma verosimile – il compito di abbassare l’improbabilità della comunicazione (Luhmann) e di rendersi più comprensibile, avvicinandosi di fatto al pubblico. Inoltre, portando una coperta si prende parte alla realizzazione della scenografia che, grazie ad un’estetica che ha ampiamente assimilato i linguaggi video, la grafica, ecc. può essere ormai riconvertita in un immaginario legato alla materialità “più povera” delle cose, alla patina degli oggetti (soprattutto se appartenuti a qualcuno). La coperta è – direbbe Michel Serres – un quasi-oggetto che serve per la relazione, che serve per fare comunità. Non solo. Tutte insieme le coperte formano scogli, isole, approdi, ripari per gli attori ma anche per estensione non solo metaforica per i rifugiati, per i superstiti, per i bambini quando giocano oppure per gli spettatori che alla fine vanno, se vogliono, a sedersi in scena, dando corpo così a quella comunità temporanea che il teatro può rappresentare ma anche stimolare. In questo senso allora “coperta” sta anche per copertura: di un tema o di una serie di questioni che riguardano sempre, alla fine, il rapporto fra individuo e società e i modi dello stare insieme.

Nella Tempesta foto © Andrea Gallo
Nella Tempesta foto © Andrea Gallo

Motus la lezione del Living l’ha assimilata ma l’ha anche resa pertinente all’ambiente culturale e mediale contemporaneo. La pratica partecipativa di un teatro che aggrediva le strade e lo spettatore trova una diversa semantica, di certo più vicina all’idea di connessione, diffusione, relazione che dipende dal fatto che è cambiato il senso di posizione nella comunicazione. Innescare delle piccole tempeste allora non vuol dire tanto diffonderle per contagio – non vuol quindi subirle – così come ancora una certa semantica della viralità definisce questi fenomeni, ma piuttosto vuol dire farle circolare – to spread – in modo che chiunque abbia quel tipo di urgenza o quel tipo di domanda, partecipi a quella messa in circolazione (Jenkins, Boccia Artieri). Qui il pubblico è invitato a “fare” ma può anche guardare (lurker) perché è la logica con cui si guarda che è cambiata e l’esserci nella comunicazione, come nel teatro, non è mai, non più, da intendersi come un processo soltanto passivo. Forse un’ipotesi per un futuro migliore può partire anche da qui.

Laura Gemini

share

Related posts