Se, come scrive Giorgio Agamben in Kommerell o del gesto[1], la critica ha tre livelli esemplificabili in tre sfere concentriche di cui l’ultima è la risoluzione dell’opera in un gesto d’intenzione, l’arte di Arman, artista eponimo del gruppo dei Nouveaux Réalistes, è tutta condensabile in tracce ed impronte, in allures d’objets e cachets, ricercanti il significato ultimo del fare arte. Il museo parigino Pompidou ha celebrato con un’ampia ed esauriente retrospettiva – conclusasi lo scorso gennaio – per un totale di centoventi opere, la vita e il lavoro di Arman che è parso a chi scrive un inno alla volontà di potenza del gesto d’artista. Un gesto che non dà a sè il suo esserci e il suo dire, è da intendersi stadio meno ragionato e più viscerale dell’espressione comunicativa di un soggetto. Kommerell definisce l’atto gestuale essenzialmente come gesto linguistico – Sprachgebärde – ovvero una volontà di parola mancata che tradisce, nel suo non dirsi, l’incapacità d’essere contenuta in codici pre-ordinati. Nella società dei sofisti, l’uomo ha perduto i suoi gesti, ne ha svuotato di volontà di potenza il contenuto, rendendoli così convenzioni sociali svilite di portata comunicativa. Agamben dichiara che un’epoca che ha perduto i suoi gesti, è per ciò stesso, ossessionata da essi; per uomini, ai quali ogni naturalezza è stata sottratta, il gesto diventa un destino.
Ampia introduzione, ma premessa irrinunciabile per comprendere l’opera di Arman che ci pare essere un costante richiamo al valore primordiale del gesto che dà senso all’oggetto. La società della catena di montaggio e della serialità dei prodotti di consumo reclama a gran voce quella ossessione di cui parlava Agamben. L’ossessiva ricerca della ragion d’essere dell’oggetto seriale, per il feticcio ragionevole di Pierre Restany, portaalla distinzione, in Arman, tra l’oggetto identico ad un altro nell’aspetto e la sua assoluta singolarità data dalla differente propria destinazione d’uso, perchè ogni oggetto non sarà mai investito dai gesti di uno stesso attore esistenziale. Ed ecco allora l’identico, ma diverso, delle accumulazioni come in La vie à pleines dents o il celebre Home sweet home.
Il gesto, per definizione, è un voler indicare una presenza, un’essenza che sussiste in un determinato spazio. Arman sceglie lo spazio che lo circonda, intendendolo geometricamente come fosse una scacchiera e ponendo se stesso in fianchetto, in prospettiva trasversale. Il suo è un riempire in virtù del suo essere impulsivo, come istintivo fu l’allestimento alla galleria d’arte di Iris Clert dove, nel 1960, Arman sversò oggetti di scarto che fino a un momento prima erano considerati comuni rifiuti. Nel 1959 l’artista sperimenta la sua prima poubelle – pattumiera – che, da quel momento, acquista vita nuova facendo diventare anche il contenitore non più luogo di transito temporaneo, ma meta finale, teca della memoria rivelatrice della personalità del consumatore. L’esposizione parigina presenta alcune delle più famose poubelles, dalle prime rudimentali del cinquantanove a quelle più complesse degli anni settanta nelle quali si cristallizzarono, a sacra icona della civiltà dei consumi, anche scarti organici resi inerti dal collante masscast.
Gesto totale è anche il colpire, con violenza e con collera, oggetti che un momento prima si accarezzavano quasi a cercare un intimo dialogo affettivo. Di questa serie, iniziata nel sessantuno, a Parigi si presenta la celeberrima Chopin’s Waterloo del sessantadue e Die Weisse Orchid del sessantatrè. Tuttavia non si tratta di gesti collerici tout court, anche se comunemente definiti colères et coupes – collere e colpi , ma bensì di bagliori di volontà di conoscenza più intima e materica, volontà di liberare l’anima delle cose imprigionata dalla forma e anche, più precisamente nei coupes, divoglia di ridisegnare il reale dando ad esso prospettive nuove, reinventando l’anamorfosi o la destrutturalizzazionecome in Subida al cielo e in Du producteur au consommateur. Arman è ossessionato dall’oggetto investito dal gesto perchè ossessionato dal vissuto di ciascun utilizzatore. La distruzione della materia, nella seriede Les Combustions – Le Combustioni – rappresenta la massima presenza dell’immagine-oggetto, fissata nell’attimo del suo emergere quantitativo, […] ovvero interamente linguaggio (Restany) come nell’opera The day after, salone stile Luigi XV interamente fuso nel bronzo. Un pianoforte che arde è la massima materializzazione dell’immagine che, ridotta a cenere e a carcassa fumante, permette la manipolazione del rovente e segna la strada della digitalizzazione della stessa. Arman, col suo bruciare, materializza ciò che ha reso immateriale, sacrificando il corpo dell’immagine per l’idea dell’immagine stessa. Possibile è ora ricomporre i granelli e disporli a piacimento, proprio come se si fosse dinanzi lo schermo di un computer e si vedesse un’immagine decomporsi in particelle indefinibili, in mille pixel che, anche se monadi orgogliose, concorrono, nell’idea di chi guarda, alla ri-composizione più intima e ragionata di ciò che un momento prima era solo un tutt’uno, una contemplazione d’aristotelica memoria, retaggio di un’arte troppo vecchia, troppo poco réaliste.
Marco Caccavo
D’ARS year 51/nr 205/spring 2011
[1] in “La potenza del pensiero” saggi e conferenze, Giorgio Agamben, Biblioteca Neri Pozza, 2010